Fascismo
Il movimento politico dei “Fasci di combattimento” fu fondato nel marzo 1919 (pochi mesi dopo la fine della prima guerra mondiale), su iniziativa dell’ex-socialista Benito Mussolini. Il programma politico iniziale conteneva proposizioni nazionaliste, populiste, repubblicane e anticlericali. Negli anni seguenti esso fu modificato in senso radicalmente reazionario, antisocialista e antidemocratico, e l’azione dei fascisti nel paese fu caratterizzata da una notevole violenza fisica (lo “squadrismo”). Nel novembre 1921 il movimento divenne Partito Nazionale Fascista (Pnf); Mussolini ne fu sempre il leader effettivo e riconosciuto, ma non volle mai esserne il segretario. Il 28 ottobre 1922 organizzò la “marcia su Roma”, con migliaia di fascisti; il re non la contrastò e affidò proprio a lui l’incarico di costituire un nuovo governo. Esso fu inizialmente basato su una coalizione; ben presto si trasformò in dittatura.
Mussolini (“il duce”, o qualche volta “dux”) fu ininterrottamente primo ministro dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943, quando fu defenestrato dal re e dal Gran Consiglio del Fascismo. Nel maggio 1927 si vantò alla Camera di aver soppresso i giornali e i partiti di opposizione. Nel 1929 concluse i Patti Lateranensi con la Santa Sede; nel 1936 conquistò l’Etiopia e proclamò l’Impero; in quel periodo dette un importante sostegno a Francisco Franco in Spagna; in novembre 1936 annunciò l’Asse con la Germania nazista guidata da Adolf Hitler; in dicembre 1937 uscì dalla Società delle Nazioni; in aprile 1939 invase l’Albania, cui impose un governo fantoccio. Il 10 giugno 1940 il Regno d’Italia entrò in guerra al fianco del Terzo Reich; occupò ampie regioni in Francia e nei Balcani. Il 10 luglio 1943 gli Alleati, che già avevano liberato le colonie italiane in Africa, sbarcarono in Sicilia. Il 25 luglio il re e il Gran Consiglio del Fascismo defenestrarono Mussolini, che fu arrestato; l’8 settembre 1943 l’Italia annunciò l’armistizio con gli Alleati. Le forze tedesche occuparono le regioni centrali e settentrionali, e sovraintesero alla costituzione in quei territori della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), guidata nuovamente da Mussolini (da esse liberato). Il nuovo governo fascista-repubblicano (detto “repubblichino”) era un governo fantoccio, ma aveva un reale radicamento in una parte della popolazione. Fu sconfitto dalla lenta avanzata degli Alleati e dalla crescente Resistenza antifascista (Roma fu liberata nel giugno 1944; Milano nell’aprile 1945).
Lo statuto e i programmi del Pnf non contennero principi o propositi antiebraici sino al 1938. Prima del 1922 Mussolini aveva scritto alcuni articoli radicalmente antisemiti; dalla fine di quell’anno e per tre lustri non si pronunciò più pubblicamente contro gli ebrei. Vi furono quindi ebrei che condivisero il fascismo e si iscrissero al Pnf (altri furono antifascisti). Peraltro, terminata la costruzione della dittatura, dalla fine degli anni Venti il dittatore operò in modo non pubblico per allontanare gli ebrei da posizioni di rilievo. E nei primi mesi del 1933 suggerì questa strategia al capo del nuovo governo tedesco (che non accettò il consiglio). Nei due-tre anni seguenti Mussolini criticò pubblicamente il razzismo nazista (non però il suo antisemitismo) e soprattutto il suo principio della superiorità del gruppo “ariano-nordico”, specialmente in occasione della crisi austriaca del 1934. A metà degli anni Trenta il dittatore italiano si orientò verso l’adozione di un’azione antiebraica pubblica e generalizzata e iniziò a orientare progressivamente in tal senso il governo e la società.
Nel 1938 Mussolini (sempre nel suo ruolo di perno centrale del fascismo) elaborò e implementò una legislazione antiebraica molto dura; la decisione fu autonoma: non vi furono né pressioni né richieste tedesche. Gli ebrei furono progressivamente estromessi da tutti gli ambiti della società: politico (ossia dal sempre più invasivo Pnf), culturale, militare, economico e sociale. Furono annullati quasi tutti i permessi di soggiorno degli ebrei stranieri; coloro che rimasero furono poi internati nel campo di Ferramonti (Cosenza) e altri più piccoli. In alcuni casi (espulsione degli studenti e degli stranieri) le norme italiane del settembre 1938 furono più radicali di quelle vigenti in quel momento in Germania (questi primati italiani durarono poche settimane).
La popolazione della penisola fu divisa in “appartenenti alla razza ariana” e “appartenenti alla razza ebraica”, i figli di matrimonio “razzialmente misto” furono assegnati all’uno o all’altro gruppo (in prevalenza al secondo); furono vietati nuovi matrimoni di tale tipo. I principali documenti governativi e tutti i testi delle leggi persecutorie erano basati sul razzismo biologico, ossia sul conteggio del “sangue” “ereditato”; la propaganda razzista comprese sia scritti con impostazione, appunto, “biologica”, sia scritti con impostazione “spirituale”, che ponevano l’accento sul primato di Roma antica, sul suo essere sede del cristianesimo/cattolicesimo, sul contributo “italiano” alla civiltà (questi tre punti marcavano la distinzione tra la posizione “italica” e quella “germanica”).
Nel 1938-1943 in Italia non vi furono violenze fisiche antisemite (salvo rare eccezioni) e nessun ebreo venne deportato. Anche nei territori occupati in Francia e nei Balcani le autorità militari e diplomatiche italiane non attuarono violenze materiali e (salvo piccole eccezioni) non acconsentirono alle richieste di consegna degli ustascia e dei nazisti. In alcune zone occupate dai tedeschi (Parigi, Salonicco, anche Tunisi) le autorità italiane difesero i diritti economici e sociali degli ebrei di cittadinanza italiana, nell’ambito della tutela della posizione geopolitica nazionale. Nel gennaio 1943 Roma concordò con Berlino il rimpatrio (e quindi la non deportabilità) degli ebrei italiani residenti nei territori europei controllati dalle forze tedesche. Nella seconda metà del 1942 Mussolini ricevette informazioni sufficienti a comprendere che era in atto un’azione di sterminio da parte del Terzo Reich; non per questo mise in discussione l’alleanza militare e politica.
Nel settembre 1943 la polizia tedesca iniziò ad arrestare e deportare gli ebrei. Dopo alcune singole operazioni in località vicine alle Alpi, in ottobre iniziò l’azione metodica di rastrellamento (a Roma, il 16 ottobre). Il 14 novembre la Rsi annunciò che gli ebrei erano “stranieri”; il 30 novembre emanò un ordine formale di arresto e internamento. Da quel momento gli arresti furono attuati soprattutto dalla polizia italiana. Gli ebrei venivano riuniti in campi provinciali; da lì venivano trasferiti nel campo nazionale di internamento: dapprima a Fossoli (Modena), poi a Bolzano. Nel campo nazionale gli ebrei passavano sotto il controllo della polizia tedesca, che organizzava la loro deportazione; la grande maggioranza dei deportati fu inviata nel centro di sterminio di Auschwitz-Birkenau (come Primo Levi). Non esistono documenti scritti sull’accordo tra i due governi e le due polizie; ma il meccanismo funzionò in modo quasi automatico: le autorità provinciali italiane trasferivano gli ebrei dai campi provinciali a quello nazionale, quando questo era colmo la polizia tedesca li caricava su un convoglio di deportazione, dopo di ciò le prime ricominciavano a trasferire ebrei. Nelle province nord-orientali, Berlino aveva istituito due “zone di operazione” sottoposte direttamente a sé: Alpenvorland e Adriatisches Küstenland; gli ebrei di quest’ultima furono sempre arrestati da tedeschi, internati nella Risiera di San Saba a Trieste e da lì deportati ad Auschwitz. Oltre trecento ebrei morirono in eccidi in varie località; circa 7.500 vennero deportati, di essi poco più di ottocento sopravvissero (tra essi, alcune centinaia di ebrei libici con passaporto inglese deportati a Bergen Belsen). La Rsi confiscò tutti i loro beni; in alcune occasioni chiese al Terzo Reich la restituzione di beni ebraici prelevati da autorità tedesche (non esistono invece documenti di protesta relativamente al “prelievo” e alla deportazione dei proprietari di quei beni).