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«Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla, come in una favola c’è dolore, e come in una favola, è piena di allegria e di felicità» : è con questa frase pronunciata fuori campo che ha inizio lo spettacolare film La vita è bella diretta dall’attore-regista e soprattutto artista del nostro cinema contemporaneo, Roberto Benigni. Il film è ambientato verso la fine degli anni Trenta in Toscana, dove due giovani lasciano la campagna per trasferirsi in città, ad Arezzo. Guido, interpretato da Benigni, il più vivace, vuole aprire una libreria nel centro storico, l’altro Ferruccio, Sergio Bustric, fa il tappezziere ma si diletta a scrivere versi comici e irriverenti. In attesa di realizzare le loro speranze, il primo trova lavoro come cameriere al Grand Hotel dello zio Eliseo, interpretato da Giustino Durano, e il secondo si arrangia come commesso in un negozio di stoffe. Appena arriva ad Arezzo, in una campagna, Guido incontra casualmente una giovane maestra, Dora, il cui volto è quello di una bellissima Nicoletta Braschi, del cui sguardo si innamora immediatamente e, per conquistarla, inventa l’impossibile, le appare continuamente davanti, si traveste da ispettore di scuola, la rapisce con la Balilla…; ma Dora si deve sposare con un vecchio compagno di scuola, e tuttavia non è soddisfatta perché vede molto cambiato il carattere dell’uomo con l’avvento delle leggi razziali. Quando al Grand Hotel viene annunciato il matrimonio, Guido irrompe nella sala in groppa al cavallo dello zio e porta via Dora. Si sposano ed hanno un bambino, Giosuè il cui volto innocente è quello di un bravissimo Giorgio Cantarini. Imposte le leggi razziali, arriva la guerra. Guido, di religione ebraica, viene deportato insieme al figlioletto e allo zio. Dora decide volontariamente di seguire la propria famiglia nel lager pur sapendo a cosa andasse incontro. Nel campo di concentramento, per tenere il figlio al riparo dai crimini che vengono perpetrati, Guido fa credere al bambino che quel “viaggio” era il regalo per il suo compleanno, gli fa credere inoltre che si trattava di un gioco a punti, in cui bisognava superare delle prove per vincere un carroarmato vero . Così va avanti, fino al giorno in cui Guido viene allontanato ed eliminato. Ma la guerra nel frattempo è finita, Giosuè esce dal lager su di un carroarmato americano, come un vero vincitore. Ciò che gli aveva promesso il padre si era realizzato, incontra la madre e le va incontro contento, gridando «Abbiamo vinto!». Il film si può dividere in due parte distinte: la prima impostata sui canoni della commedia tipica di Benigni, ambientata in una tranquilla cittadina della Toscana, ad Arezzo, negli anni ’30. La seconda, di stampo drammatico, si svolge interamente all’interno di un lager nazista. Non sono state poche le critiche negative riguardante questo aspetto, ma è proprio questo totale cambiamento di scene, colori, toni di voce, comicità, musiche che fanno del film un vero capolavoro. Benigni, regista del film, ha voluto dar voce al dolore di milioni di ebrei la cui vita è stata sconvolta e distrutta dal razzismo e dalle sue assurde e malate leggi razziali, e lo fa portando la vita e l’ironia anche laddove altro non c’era che corpi privati della anima e della loro dignità. Prima la felicità, il sorriso, l’allegria, poi la fatica, il disincanto, la ricerca utopica di un significato a quell’orrore, a quella crudeltà, fatto tutto col fine della vittoria dell’innocenza. Anche la musica, che è del maestro Nicola Piovani, rispecchia l’alternarsi di emozioni e sentimenti dei protagonisti prima e dopo la deportazione. Basterebbe ascoltare le musiche e la canzone di Noa, per capire il tema principale del film, ovvero la vittoria dell’innocenza sul male, l’amore e il sacrificio di un padre per il proprio figlio. Anche la musica cambia con l’evolversi della storia narrata, prima è una musica colorata, allegra, poi diventa malinconica, triste, ma che nello stesso tempo si fa portatrice di speranza. Guardando il film superficialmente lo si potrebbe criticare negativamente in quanto, sotto alcuni aspetti, è in contrasto con la storia, ma il vero intento di Benigni non è quello di mettere in scena un documentario, ma quello di portare il sorriso, anche se paradossalmente carico di preoccupazione e paura, laddove regnavano la crudeltà e il male . È questo uno degli aspetti caratteristici del film. Il regista toscano ha evitato un film piatto, troppo legato alla realtà, creando invece un film dove è perfetto l’intreccio comicità-drammaticità, utopia-disincanto. Si nota infatti come le scene comiche siano le più drammatiche, le più commoventi, in cui un uomo, consapevole della propria sorte, lotta per far credere e far convincere il proprio figlio che la vita è bella e che il suo ingrediente principale è l’allegria, il sorriso come canta Noa nella sua canzone che fa da colonna sonora al film Beatiful that way. Guido anche mentre viene scortato per essere ucciso, non rinuncia a regalare l’ultimo sorriso al figlio, i cui occhi intravede dietro la grata di un vecchio nascondiglio in cui aveva trovato riparo il piccolo Giosuè. Guido sa di andare incontro alla morte, eppure non esita di strizzare l’occhio al figlio, in segno di complicità per un “gioco” nel quale bisognava escogitarle tutte pur di riuscire a sopravvivere e uscirne vittoriosi. Non era un gioco qualunque, era “il gioco della vita”, in cui spesso si rimane sconfitti dal male ma che alla fine è il bene, l’innocenza e al contempo la ragione ad avere la meglio; l’importante è sperare, sorridere, amare e credere.
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