Recensione Barriera invisibile (1947)
Uscito nel 1947, tratto dal romanzo di Laura Z. Hobson e diretto da Elia Kazan, futuro regista di “Fronte del porto“, “Barriera invisibile” (titolo originale: “Gentleman’s agreement“, letteralmente “accordo tra gentiluomini”) è il primo film che affronta la tematica dell’antisemitismo negli Stati Uniti, terra liberale e da sempre con un’importante presenza ebraica. Protagonista della storia è un giovane giornalista vedovo (Gregory Peck), un tipico columnist anni Trenta-Quaranta fautore del giornalismo verità, che decide di assumere una falsa identità per provare sulla sua pelle la discriminazione razziale, al fine di pubblicare un’inchiesta sul suo giornale.
La cinematografia a stelle e strisce dopo la seconda guerra mondiale cerca di seguire il filone neorealista italiano producendo opere di rilievo; un esempio: “I migliori anni della nostra vita“, ma l’impronta hollywoodiana non abbandona mai nemmeno le pellicole impegnate, imponendo comunque una recitazione di maniera e un finale stiracchiatamente positivo. E’ quanto si riscontra nella pellicola di Kazan, animata dalla buona volontà e dall’entusiasmo propri dello straniero accettato e di successo nella cosiddetta terra della libertà (Kazan, di origine greco-turca, è portato a pochi mesi negli Stati Uniti). La storia pecca di un eccessivo didatticismo e malgrado il suo regista sia un convinto sostenitore del metodo Stanislavskij, mantiene una recitazione di stampo classico.
Gregory Peck, assoluto protagonista della storia, già all’apice del successo, è tuttavia solido nella sua interpretazione, malgrado lo stesso regista Kazan non si sia espresso con giudizi lusinghieri sul suo conto. L’attenzione e l’empatia dello spettatore sono proiettate verso di lui anche perché si adotta nella storia il punto di vista del personaggio principale, un idealista fino al paradosso, incarnazione del John Doe di capriana memoria, onesto fino al midollo, disposto a lottare per i propri ideali e comunque innamorato della sua grande e liberale nazione.
Accanto a Peck, protagonista femminile è Dorothy McGuire, attrice già nota, celebrata poi negli anni Cinquanta in “Scandalo al sole“. Il suo ruolo è in linea con l’idea della donna dell’epoca, lei è la classica signorina bene dalle idee preconcette che finisce per questo con lo scontrarsi con il suo indomito fidanzato Peck. Attrice ineccepibile, la McGuire sfoggia una delle sue migliori interpretazioni tanto da meritare la candidatura all’Oscar. Altri validi interpreti: Celeste Holm, disincantata collega di Peck e John Garfield, faccia scolpita nella pietra, nel ruolo minore dell’amico ebreo del protagonista. A Garfield va data una menzione speciale perché malgrado il ruolo secondario e la recitazione distaccata, riesce comunque a catturare l’attenzione dello spettatore e a comunicare il disagio vissuto dagli ebrei a causa della cattiva luce con cui erano visti in molti ambienti.
La pellicola rivista oggi è sicuramente valida per chi si diletta di storia del cinema, ma per i gusti dello spettatore moderno è assolutamente retrò, soprattutto (per quanto riguarda la versione italiana) nel doppiaggio troppo forbito e distante anni luce dai gusti attuali. L’altro limite del film sta nell’aver affrontato la tematica, sicuramente delicata e influenzata dal recente olocausto consumatosi in Europa (non dimentichiamo che il film è uscito nell’immediato dopoguerra) con superficialità e poco approfondimento. Il problema della discriminazione è vissuto sulla pelle dei protagonisti, ma non riesce a creare un forte impatto in chi guarda, rimanendo così un film “medio”, allineato con la Hollywood del tempo. Da guardare senza crearsi grosse aspettative.