Anita, una ragazza ungherese scampata ad Auschwitz, viene accolta a Praga dalla zia Monika, insieme al marito Aron e al di lui fratello Eli. La famiglia ebraica si sta risollevando dall’ondata di antisemitismo nazista (ben consapevole che anche l’Unione Sovietica non vede di buon occhio gli ebrei) e Anita viene accolta con un misto di affetto e preoccupazione, sia per le attenzioni indesiderate che la sua presenza può attirare, sia per la volontà della ragazza di ricordare la terribile esperienza dei campi di concentramento. Faenza sviluppa dunque il tema della negazione della memoria incarnandolo in una ragazza che dovrebbe solo pensare al futuro, e invece si ostina a cercare le radici oscure del passato, sulle quali sollevarsi con maggiore sicurezza.
“Lascia Auschwitz fuori da questa casa”, le intima Eli, ed è solo la prima avvisaglia del comportamento ambiguo e minaccioso del giovane nei confronti di Anita. L’attrazione è reciproca, così come la diffidenza. È questa la chiave di lettura più interessante di Anita B., dove l’iniziale B. è un omaggio a Edith Bruck, la scrittrice sul cui romanzo “Quanta stella c’è nel cielo” è basato il film di Faenza, ma potrebbe anche essere un’eco di quel Sabina S. con cui veniva identificata la protagonista di Prendimi l’anima: entrambe donne forti private di un’identità da una certa parte della Storia e dagli uomini (intesi soprattutto come maschi), entrambe decise a ribadire quell’identità e a sopravvivere a ogni tentativo del mondo di annullarla. Tutto il cinema di Faenza, del resto è un omaggio alla capacità di resistenza femminile e al lato indomito dell’altra metà del cielo.
Il rapporto fra Eli e Anita si pone all’insegna della contraddizione: lui la seduce e la respinge, suscita in lei ammirazione ma anche paura, e nella tensione erotica fra loro si intravede lo spettro di una complicità malata fra vittima e carnefice, tema delicatissimo soprattutto se trattato nel contesto di un film che ha come convitato di pietra l’Olocausto. “Tu lo ami?”, chiede un personaggio ad Anita, a proposito di Eli. “Temo di amarlo”, risponde lei.
Il cinema di Faenza si muove generalmente meglio in terra straniera che in Italia, e il milieu ebraico della Mitteleuropa novecentesca gli è particolarmente congeniale. Anita B. si colloca a metà fra il sussidiario, con i suoi monologhi (e dialoghi) didascalici pensati per spiegare la Storia anche alle generazioni più disinformate, e la favola yiddish, con personaggi come Jacob, “lo zio che tutti vorrebbero avere” interpretato da Moni Ovadia, e scene corali come quella del ballo della comunità.
La fotografia caramellata di Arnaldo Catinari, il montaggio morbido di Massimo Fiocchi, le musiche trascinanti di Paolo Buonvino e i costumi rigorosi di Anna Lombardi testimoniano non solo l’abilità di Faenza nel circondarsi di professionisti di prim’ordine, ma anche la sua precisa volontà di creare un mondo estetico affabulante e fiabesco, benché immerso nell’iconografica storica.
Faenza dedica uno sguardo particolarmente tenero ai suoi due giovani protagonisti, la dolcissima e severa Eline Powell e l’affascinante Robert Sheehan con la sua insopprimibile star quality che riesce a rendere simpatico un gaglioffo, e gaglioffo un ragazzo spaventato. Faenza è maestro nello scegliere le facce giuste (un esempio per tutti: Guenda Goria nei panni di una luminosa pianista) e nell’armonizzare cast internazionali evitando l’effetto “quote produttive”.
Non ci sono guizzi in Anita B. ma una piacevolezza di racconto che si lascia seguire pur senza lasciare un segno indelebile o l’impronta nitida di una zampata autoriale. Attraverso quest’aurea mediocritas il regista riesce a comunicare un messaggio di speranza a chi si trova incagliato fra passato e futuro: il che, di questi tempi, ha il suo valore.