Fonte:
Moked.it
Autore:
David Sorani
Tifo e razzismo
I recenti episodi milanesi di violenza squadristica e di razzismo da parte degli ultras interisti tornano a interrogarci sulla profonda degenerazione della passione sportiva in orrendo gioco di supremazia. Basta pensare a cosa è accaduto e a cosa sarebbe avvenuto se la spedizione punitiva armata degli ultras interisti contro quelli partenopei fosse stata compiuta, per rimanere quasi increduli di fronte all’affermazione diffusa e convinta di un razzismo sfrontato, di un’aggressività collettiva orgogliosa di sé. Questa esplosione ricorrente e becera, non sofisticata e sottile come altre forme di rifiuto ma ingenua e spietata nella sua irrazionalità, costituisce una vera emergenza oggi, perché il fenomeno non è effettivamente contrastato; perché alcuni club calcistici mostrano troppa condiscendenza se non interesse ad alimentare un sostegno alla squadra che di sportivo non ha nulla; perché a smuovere un vento così distruttivo sono una passione cieca e un legame viscerale difficili da sconfiggere. Basta vedere il recente, impressionante documentario di Daniele Segre “Ragazzi di stadio. Quarant’anni dopo” per capire cosa sta dietro e dentro alla marea del tifo ultras. Le sue interviste agli ultras juventini sono pienamente rivelatrici, mettono a nudo un mondo interiore e collettivo davvero inquietante.
Proviamo ad analizzare rapidamente gli elementi costitutivi di questo meccanismo di odio.
Premessa generale è che, paradossalmente ma non troppo, lo sport e il gusto per il gioco del calcio non c’entrano niente. Gli ingredienti sono altri. Innanzitutto un protagonismo violento, spinto da un forte impulso a primeggiare. Attraverso l’aggressività emerge prepotente la proiezione di sé in un atteggiamento totalmente escludente che esalta se stesso e la propria parte proprio in ragione della maggiore forza e della maggiore violenza rispetto all’avversario. Ma l’autoesaltazione non è fatto individuale, è manifestazione costantemente collettiva: il tifoso ultras si afferma solo nella misura in cui si afferma il suo gruppo, a cui è totalmente solidale. Inizia qui il gioco crudele di una guerra fra bande ugualmente violente, e l’esaltazione della propria schiera armata (metaforicamente e realmente) è piena solo se totale è la distruzione del gruppo avverso, divenuto un vero nemico.
Ma perché questa violenza gratuita ha bisogno di una ideologia di fondo? E perché il riferimento ideologico è quasi sempre il nazismo, con i suoi connotati di razzismo e antisemitismo? L’ammantarsi di un retroterra politico – ancorché sommariamente conosciuto – conferisce compattezza e quasi un senso di militanza. Le parole d’ordine e la simbologia del nazi-fascismo esprimono un messaggio di supremazia e di spietatezza pienamente condivisi dagli ultras, sono l’immagine della potenza che essi vogliono rappresentare. Razzismo e antisemitismo, perni identitari del nazi-fascismo, danno voce/linguaggio alla volontà di supremazia violenta e di esclusione viscerale dell’avversario, accusato di essere “ebreo” (cioè elemento totalmente negativo) o denunciato quale essere “inferiore” (“scimmia”, non-uomo) se giocatore di colore della squadra contrapposta. Certo, dietro il modello negativo dell’ “ebreo” delineato nella più crassa ignoranza dal tifoso ultras c’è immediatamente il riferimento alle schiere esaltate dei nazisti, c’è l’immagine della Hitlerjugend; ma dentro a ciò, l’ebreo è negativo perché “diverso”, perché non aggregato, perché separato rispetto alla massa, al “popolo” di cui il tifoso esaltato si sente parte.
Nel fondo, il comportamento distruttivo degli ultras è evidente manifestazione di infantilismo, è regresso di gruppo ad un gioco spietato e irrazionale che esula dallo sport e si concentra sull’io delle schiere contrapposte uccidendo ogni atteggiamento umano.
Il rischio, di fronte al ripetersi ciclico delle violenze ultras fuori e dentro gli stadi – davanti al continuo e spregevole razzismo delle folle nei confronti dei giocatori che hanno la pelle di un altro colore, è quello di abituarsi a convivere con tutto ciò, di rassegnarsi a sopportare una malattia non curabile ma “tollerabile”. Tollerabile invece essa non è per niente, perché toglie ogni possibile vergogna e ogni barlume di razionalità/umanità a chi ne è protagonista, distrugge il vero spirito sportivo, annulla la civiltà della società che la ammette.
Che fare dunque? Colpire la connivenza ancora presente fra tifo ultras e società sportive, vietare per legge la costituzione di gruppi violenti, evitare che le partite proseguano quando di sport non si può più parlare, provare a “formare” civicamente e storicamente i tifosi più violenti. Soprattutto non rassegnarsi.