30 Ottobre 2019

Testimonianza di uno dei due giovani amministratori della chat antisemita “Shoahparty”

Fonte:

La Stampa edizione di Torino

Autore:

Ludovico Poletto

Le lacrime del fondatore della chat “Era un gioco, ma poi è degenerato”

II minorenne che assieme a un amico ha ideato ” Shoahparty” confessa davanti ai carabinieri “Mi scuso se sono stato offensivo, non mi sono reso conto: avrei dovuto segnalare quei video”

Black Humor. Tutto nacque qui, su questo profilo Instagram (adesso chiuso) creato in bassa val di Susa da due compagni di scuola superiore. «Black Humor» doveva contenere soltanto stupidaggini da ragazzini. Battutacce, meme e vignette. Politicamente scorrette – ovvio – ma non triviali. Poi, un giorno i due ragazzi hanno deciso di far diventare quel profilo una chat per WhatsApp. Di chi sia stata l’idea non si sa. Ciò che è certo è che la situazione gli è totalmente sfuggita di mano. È nato così lo scandalo «Shoah party»: la chat con violenze e pedopornografia che aveva seguaci (tutti, o quasi, minorenni) dal Piemonte alla Sicilia. I contenuti? Violenza, bestemmie, razzismo. Nella chat dell’odio la Shoah era un gioco. E gli ebrei «combustibile». La professoressa era «da stuprare». E i ragazzi con il cancro gente da prendere in giro. Queste cose le ha raccontate l’altro giorno ai carabinieri l’amministratore del gruppo WhatsApp. Il ragazzino che aveva la scheda telefonica intestata al papà. E che per qualche ora ha messo nei guai pure lui. Il padre lo difendeva: «Secondo me lo hanno tirato dentro altri. E lo hanno fatto amministratore a sua insaputa». «Mio figlio non dice parolacce». E ancora: «Io controllavo il suo telefono: non ho mai visto nulla». L’altro giorno – assistito dall’avvocato Mauro Carena – il giovanotto s’è arreso davanti a chi lo interrogava e ha raccontato tutto. Stavolta davvero provato e sconvolto. «Sì, ero io l’amministratore del gruppo, con un altro mio amico». «Sì, le battute razziste le abbiamo fatte, ma con incoscienza». «No, non avevamo compreso la gravità di ciò che stavamo facendo». «All’inizio era un gioco, poi è degenerato». «Me ne scuso, non volevo essere offensivo. Io non sono una persona così». Ma non bastano di certo le scuse per chiudere tutto con una pacca sulla spalla. Sul tavolo, infatti, c’è ben altro. Ci sono i video delle violenze e la pedopornografia. «Quella roba lì non l’abbiamo pubblicata noi, lo giuro. Li avrà inseriti qualche utente». Perché non sono stati tolti? Mistero. Ed è un mistero la ragione per cui la chat non è stata chiusa quando è diventata la piattaforma italiana dell’odio online. In trecento – hanno accertato i carabinieri di Siena – sono entrati in quel mondo nel quale se non scrivevi una bestemmia a riga non eri nessuno. Dove se non odiavi Dio, gli ebrei, gli africani oppure se non inneggiavi a qualcosa di orribile, eri uno sfigato. In 25 sono rimasti. Tutti indagati per una sfilza di reati lunga così. Tre settimane dopo lo scandalo è tutto più chiaro. Gli interrogatori, però, vanno avanti. Il 5 novembre la procura nominerà Ctu Vincenzo D’Abbundo. Scaverà dentro smartphones, tablet e pc sequestrati. A Natale si saprà di più.