Fonte:
Il Foglio
Autore:
Federico Bosco
Da Koestler a Schlein, l’uso in senso antisemita del termine “ashkenazita”
Roma. Da quando Elly Schlein è diventata una leader in grado di vincere le primarie del Pd la sua identità ebraica è diventata una fonte di insulti sui social, in cui spesso viene sottolineata l’origine “ashkenazita” della famiglia. Una definizione in sé neutrale, ma che rimanda ad alcune teorie complottiate particolarmente ripugnanti che è bene conoscere visto che il termine è rimbalzato sui social fino ad arrivare sulle pagine dei giornali. Ieri, ad esempio, sul Fatto quotidiano è stata pubblicato un profilo biografico – non esattamente gentile nei suoi confronti – in cui Schlein veniva raffigurata con un’enorme caricatura che ne storpiava i caratteri fisici secondo alcuni stereotipi che richiamano, forse involontariamente, la propaganda antisemita. La sottolineatura delle origini ebraiche era ben visibile nella didascalia e nel testo, con queste parole “Elena Ethel Schlein, detta Elly, nasce a Lugano nella bambagia delle élite, anno 1985. Il padre Melvin è americano, ebreo ashkenazita, insegna Scienze politiche alla John Hopkins University”. Con ashkenazita si definisce (in senso molto ampio) l’origine, la dottrina e la cultura degli ebrei dell’Europa centrale e orientale, distinguendoli dai sefarditi, gli ebrei originari della penisola iberica espulsi nel 1942 dalla riconquista spagnola e stanziatisi per lo più nel Maghreb e in altri paesi del Mediterraneo. Oggi per “sefarditi” si intendono gli ebrei originari dei paesi arabi, mentre gli “ashkenaziti” sono gli ebrei di origine europea. Ma dietro l’uso del termine “ashkenazita”, in sé neutro, sottolineato per definire Schlein e prima di lei persone come George Soros c’è, almeno in alcuni mondi e nel sottobosco della rete, il rimando a un’intera teoria complottista che ruota attorno alla specificità ashkenazita. Secondo questa teoria gli ashkenaziti sono gli ebrei più malvagi, i membri della “cupola” all’origine di ogni cospirazione, e soprattutto dei “falsi ebrei” in quanto eredi dei Cazari, gli abitanti dell’antico Khanato di Khazaria che si convertirono in massa all’ebraismo e, dopo la caduta dell’impero, si diffusero in Europa orientale e da lì in tutto il mondo. Le basi di questa teoria sono state estratte dal libro “La tredicesima tribù. Storia dei cazari, dal Medioevo all’Olocausto ebraico”, un saggio del 1976 scritto da Arthur Koestler (askhenazita ungherese autore del celebre “Buio a mezzogiorno”) in cui si ripercorre la storia di un popolo che tra il quinto e il dodicesimo secolo dominava un ampio territorio tra il mar Nero e il mar Caspio. Una civiltà di stirpe turca esistita realmente che, secondo il saggio, intorno all’ottavo secolo avrebbe abbandonato lo sciamanesimo per convertirsi all’ebraismo. La teoria di Koestler, pur facendo riferimento ad alcuni elementi reali, è stata contestata da storici e antropologi e l’ipotesi di una conversione di massa dell’intera popolazione della Khazaria non ha trovato riscontro. La teoria è stata però sfruttata da complottisti e antisemiti in Europa e nel mondo arabo per bollare come abusiva la maggior parte della popolazione israeliana, rappresentando la prova che la maggior parte degli ebrei non ha mai avuto radici nell’antica Giudea. Successivamente, la storia dei cazari ha reso il termine “ashkenazita” un modo per usare con disinvoltura la definizione “ebreo” in senso dispregiativo, al punto che spesso si usa solo “ashkenazita” per eliminare il riferimento alla religione. Ironia della sorte, sembra che Koestler scrisse quel libro con l’idea che se avesse dimostrato che la maggior parte degli ebrei europei discendeva dai Cazari la base razziale dell’antisemitismo sarebbe scomparsa, e con esso l’odio verso gli ebrei. Ma l’antisemitismo è un male strisciante che ha attraversato secoli e generazioni continuando a trasformarsi e a riemergere, a volte (si spera) anche inconsapevolmente.
Illustrazione di Francesco Federighi, copyright Il Fatto Quotidiano