Fonte:
Il Sole24Ore
Autore:
Patrizia Maciocchi
Minimizzare la Shoah non è libera espressione e fa scattare l’aggravante
Il revisionismo della Shoah non rientra nella libera manifestazione del pensiero. Né chi minimizza lo sterminio di 6 milioni di persone, può invocare la buona fede, perché l’Olocausto è definitivamente accertato, anche grazie allo Stato che ha messo a disposizione gli strumenti culturali per far conoscere la tragedia del popolo ebraico. La Corte di cassazione (sentenza 3808 depositata ieri) conferma la condanna dell’imputato che, il 27 gennaio 2017, nella Giornata della Memoria, aveva affisso nelle vie di Milano volantini con l’immagine di Pinocchio con la scritta sul naso «Made in Israel». Nei manifestini si ricordavano poi i libri, venduti nelle aree di servizio dell’autostrada «tra una caciotta e un culatello», che riportavano i racconti di esseri umani trasformati in bottoni e saponette. Una cultura ufficiale che – secondo gli scritti che la Cassazione definisce aberranti – avrebbe paura degli studi revisionisti, perché ha qualcosa da nascondere. La Corte condanna. E sottolinea che non solo il negazionismo fa scattare l’aggravante, in caso di propaganda di idee fondate sull’odio razziale (articolo 604bis del Codice penale), ma anche la minimizzazione. La Cassazione va oltre, affermando l’esistenza di una continuità tra politica nazista e occultamento delle prove del genocidio. Obiettivo degli autori «che si definiscono storici» è convincere che la Shoah sia una grande impostura. Il fine vero non è «la ricerca della verità, ma piuttosto quello (inaccettabile) di riabilitare il regime nazionalsocialista». Per escludere che la rilettura della storia possa rientrare nell’articolo io della Cedu sul diritto alla libertà di espressione, i giudici richiamano la giurisprudenza di Strasburgo, che pure assicura una tutela ampia. La Grande Chambre, (Sentenza Perinçek contro Svizzera del 2016) ha riconosciuto come l’Olocausto sia storicamente accertato e non discutibile. Nello specifico inutile per l’imputato, classe ’92, anche invocare la buona fede. Nel 2000, quando è stata istituita la giornata della Memoria, faceva le scuole elementari. Allora si era ben spiegato il senso del 27 gennaio giorno in cui, nel ’45, l’Armata rossa entrò ad Auschwitz documentando l’orrore. L’imputato però – conclude la Corte di cassazione – non si è giovato di quell’insegnamento e invece di adoperarsi perché un simile sterminio non potesse più accadere, si è impegnato a negarlo.