Fonte:
Il Fatto Quotidiano
Autore:
Guido Rampoldi
L’antisemitismo prêt-à-porter
Dovremmo cominciare a fare i conti con quella regola universale della psicologia democratica per la quale il razzismo è sempre la malattia del vicino. Era razzista la Svizzera con i nostri immigrati (ma per quanto male fossero trattati, essi godevano di una condizione migliore di quella che aspetta chi oggi emigra in Italia). Sono razzisti gli israeliani secondo i media i palestinesi (che però praticano un antigiudaismo brutale). Sono razzisti gli europei secondo i governi arabi (che mai raccontano la discriminazione feroce di quelle società verso i neri). Il ricorso al doppio standard è tanto più grave in quanto finisce per banalizzare l’accusa di razzismo, condannandola all’irrilevanza. Non sfugge a questo rischio quel razzismo particolare che conosciamo col nome di antisemitismo. Le cronache di queste settimane abbondano di polemiche nelle quali viene contestato odio antisemita a deputati laburisti, ad accademici italiani che propongono boicottaggi anti-israeliani, a ricercatori che a Torino presenteranno una ricerca sul carattere predatorio dell’occupazione del West Bank… e al pubblico spesso non è chiaro se l’accusa di antisemitismo sia onesta o ipocrita. Di sicuro è antisemita quella sinistra radicale che identifica gli ebrei con Israele e Israele con il suo attuale governo, secondo lo schema proprio anche all’islamismo. Ma se leggete quell’equazione all’inverso, scoprite che ricalca la formula cara al nazionalismo israeliano: il governo Netanyahu è Israele e Israele è l’ebraismo; perciò se giudicate Netanyahu un disonesto imbecille avete insultato Israele, e per la proprietà transitiva tutti gli ebrei; dunque siete un antisemita. Qui potreste obiettare che anche ottimi giornalisti israeliani considerano il loro governo una consorteria di mediocri e razzisti: come si può sostenere che le loro idee siano antisemite? Perché quegli ebrei odiano la propria identità ebraica, risponde la destra israeliana. La categoria del self-hating jew, l’ebreo che odia se stesso, fonda un antisemitismo politicamente corretto che colpisce un determinato gruppo di persone proprio in quanto ebrei (però ebrei che non corrispondono a come li vorrebbero il governo Netanyahu). In Italia questo antisemitismo paradossale si mimetizza dietro quel pensiero neocon che è riuscito a farci credere che i conflitti politici siano in realtà conflitti etnici. Che oppongano non principi, ideologie, interessi, ma appartenenze collettive, “culture”. E chi rifiuta di entrare nel casellario etnico inevitabilmente risulta sospetto.
CON QUESTA PREMESSA il conflitto politico israeliano, tra una destra aggressiva e illiberale e una splendida sinistra liberale, forse la migliore sinistra liberale del pianeta, può essere spacciato per il conflitto tra ebrei autentici ed ebrei rinnegati, traditori della propria identità. Anche di questo dovrebbe discutere l’Osservatorio Antisemitismo di Milano, e magari spendere qualche parola in difesa di quegli ebrei -giornalisti di Haaretz, militanti di Breaking the silence, opinionisti italiani – che subiscono l’antisemitismo di chi si professa nemico dell’antisemitismo. Ma questo non accade. Anzi, l’Osservatorio segnala nel suo sito un articoletto apparso sull’Unità contro i pezzi del Fatto sui conflitti di interesse che trascina la candidatura del renziano Marco Carrai a consulente di Palazzo Chigi. Secondo l’Unità quei testi rivelano odio per gli ebrei. A voler essere generosi, questa scemenza è un trucco per sottrarsi al dovere di replicare nel merito. E questo l’Osservatorio dovrebbe dire. Invece riproduce senza alcun commento gli insulti al Fatto nella rubrica Opinioni:sicché non si capisce se approvi o prenda le distanze. Ben venga anche il pilatismo dell’Osservatorio se portasse a distinguere tra una limpida lotta all’antisemitismo e la sua falsificazione strumentale, con il corollario di doppi standard e uso politico della storia (esempi recenti: le invettive di forsennati contro la gloriosa Brigata ebraica non giustificano l’equazione tra ebraismo e antifascismo, contraddetta dalle migliaia di ebrei iscritti al Fascio; gli sciocchi e i furbi che paragonano l’occupazione israeliana del WestBank ad Auschwitz non sono diversi da Netanyahu quando racconta che Hitler decise la “soluzione finale” perché convinto dal gran muftì di Gerusalemme (insomma dai palestinesi). Infine una onesta lotta all’antisemitismo, a ogni razzismo, dovrebbe adottare criteri lineari e universali, applicabili a chiunque. È la lezione di Tikkun, rivista dell’ebraismo americano (self-hating jews, naturalmente):l’Olocausto può essere scomposto nelle azioni e nei comportamenti che lo resero possibile e lo realizzarono, e ciascuno di questi segmenti è riproducibile da qualsiasi individuo, da qualsiasi società. Nessuna esclusa.