Fonte:
www.joimag.it
Autore:
Massimo Giuliani
Le ripercussioni del conflitto Hamas-Israele sul dialogo ebraico-cristiano
Punti di vista a confronto, errori teologici e pregiudizi storici
Il conflitto in corso tra Israele e Hamas, dopo i massacri del 7 ottobre 2023 (le cui modalità hanno riportato alla mente le peggiori atrocità della Shoah e della seconda guerra mondiale), sta avendo delle serie ripercussioni nell’ambito del dialogo tra ebrei e cristiani. Il mensile dell’Ucei Pagine ebraiche ha titolato in modo sintetico: “Poca empatia, molti passi indietro”. Qualcuno si è spinto a chiedersi a cosa siano serviti sessant’anni di lavoro dialogico se l’incomprensione cristiana, manifestatasi in questa drammatica ora della storia del popolo ebraico, è giunta a ricacciare gli ebrei nell’angolo di cultori della vendetta, così che, implicitamente, i cristiani sembrino i soli paladini dell’amore e del perdono. C’è chi ha affermato: “Hamas terrorista? Dipende dal punto di vista”, e ancora: “Povera Israele: quasi ottant’anni di spietata occupazione, di ingiustizie, di sopraffazioni, di soprusi, umiliazioni, uccisioni, hanno anestetizzato il suo cuore e resta senza pietà. Povera perché quando ne avrà bisogno non ne troverà” (entrambe le citazioni sono del teologo Alberto Maggi).
Toni oracolari a parte, ma di quale paese sta parlando? Di Israele, la cui società multietnica e multireligiosa, da sempre ospita e cura i palestinesi nei propri ospedali; che dà titoli accademici a chiunque persegua regolari curricula nelle sue università (di eccellenza internazionale); che punisce gli abusi del proprio esercito di leva quando ne trasgredisce il codice etico; che ha governi regolarmente eletti e una magistratura indipendente che vigila sull’operato dei suoi governi democratici? E quale “punto di vista” giustifica un gruppo di fanatici islamici che, dopo aver soggiogato gli abitanti di Gaza, ha fatto della distruzione di Israele (come Stato e come popolo!) l’unico maniacale obiettivo delle sue azioni politiche (da sempre, non solo dal 7 ottobre)?
Ora, in questo momento drammatico e angosciante, per alcuni aspetti tragico, per il costo in vite umane e per l’oscuramento di speranze future (almeno in termini di fiducia tra i popoli della regione), il mondo cristiano ha reagito di pancia e ha mandato per lo più segnali ambigui, quando non ha fatto riemergere sentimenti ostili e alcuni classici pregiudizi religiosi contro gli ebrei (e ignoriamo qui, per carità di patria, le infinite espressioni di antisemitismo della nostra società a substrato cattolico, anche quando è laicizzata o post-religiosa).
Dire ogni giorno che “la guerra è una sconfitta per tutti” suona come un bello slogan, che raccoglie facile consensi, ma che evita la fatica della valutazione storica e del discernimento razionale e soprattutto non chiama intenzionalmente fatti e cose con il loro nome, e quindi falsifica la realtà. A ben vedere, il vero dialogo tra ebrei e cristiani è sempre stato questo: non baci e abbracci, tanto commoventi quanto superficiali, ma un severo e onesto percorso di ripensamento, valutazione e discernimento degli antichi errori della teologia cristiana che umiliavano gli ebrei, disprezzando il giudaismo e non riconoscendo né i meriti di fedeltà ebraica al Dio della rivelazione sinaica né i legami che, in forza di quella rivelazione, connettono in profondità le due fedi religiose, l’ebraica e la cristiana, e indirettamente anche l’islàm (il cui viscerale antisionismo e antigiudaismo è uno degli elementi cruciali nell’attuale conflitto armato; è l’elefante nella stanza, come ha scritto Marco Cassuto Morselli, presidente della Federazione delle amicizie ebraico-cristiane in Italia). Il nome proprio di quel dialogo è e resta teshuvà ossia riconoscimento dei propri sbagli e cambiamento di prospettiva e di prassi nelle mutue relazioni tra le due comunità di fede. Questa teshuvà nelle chiese cristiane è, io credo, irreversibile, e non sarà cancellato dalle parole di antipatia verso l’ebraismo espresse da un manipolo di cardinali o di teologi. Nella storia, comunque, certi sbagli tendono a ripetersi…
A parte il fatto che nessuna religione ha il monopolio dell’amore e del perdono e della pace – a prescindere dal fatto che Torà e Yom Kippur restano paradigmi insuperati su quei temi, e un argine a ogni loro banalizzazione – ripetere che l’azione militare di Israele per sradicare Hamas, e l’oggettiva terribile minaccia all’esistenza della presenza ebraica su quella terra, siano “un’azione di vendetta”, come ha scritto il monaco e intellettuale Enzo Bianchi (su Repubblica, 19 febbraio 2024), facendo eco a opinioni cardinalizie, significa non (voler) vedere la vera posta in gioco di questa guerra, che Israele ha subìto – non ha voluto – e che deve, sì deve, combattere proprio per evitarne altre e di peggiori in futuro.
Certo che si può criticare anche questa come ogni altra guerra e si possono ovviamente criticare le politiche dei diversi governi israeliani senza diventare, con ciò stesso, antisemiti. Tutto è criticabile e nessun essere umano, come nessun governo, è esente di scelte sbegliate e, a volte, da macroscopiche contraddizioni. Ma, in questo caso, avanzare – contro Israele che si pretende di amare – i concetti di “reazione proporzionale” o di “guerra aliena dalla ragione” è problematico: chi stabilisce la giusta proporzione in un caso così complesso? È una mera questione quantitativa (quando la Torà dice “un occhio per un occhio”, non è anche questa una “reazione proporzionale”, e tuttavia strumentalizzata in chiave antiebraica)? La recidività del crimine d’odio contro gli ebrei non va tenuta in considerazione? E l’etica della responsabilità, che guarda alle conseguenze delle proprie azioni, vale solo per Israele e non per il suoi nemici? Con buona pace di papa Roncalli, la guerra non solo non è aliena dalla ragione umana ma ne è il prodotto, perché è connaturata all’umano sin dal mitico inizio della storia, con Caino e Abele. Va ricordato che Abele fu ucciso – dice una controstoria che illumina la storia stessa – proprio perché credette, ingenuamente, alle profferte di pace di Caino! Possiamo anche concordare che non esiste “guerra giusta” ma ci sono spessissimo, nell’umanità, giuste ragioni per fare una guerra e l’ingenuità di principi tanto generali quanto astorici e acritici resta foriera di immani ingiustizie. Se porgere l’altra guancia è – forse – eroico negli individui, è deleterio, anzi è stupido nei rapporti internazionali e tra i popoli. Come dice il proverbio, solo siepi resistenti creano un buon vicinato.
Ma tornando all’articolo di Bianchi, dal forte tenore argomentativo, vi è in esso, a mio avviso, un errore teologico di fondo, e multiplo e grave. Scrive infatti il monaco cattolico che «per i cattolici il dialogo teologico e la relazione originale non riguardano tutti gli ebrei, ma l’“Israele di Dio”, come lo chiama Paolo di Tarso, cioè gli ebrei credenti in alleanza con il loro Signore. Israele come Stato – e come uno dei tanti Stati del mondo – non è e non può essere il soggetto religioso che dialoga con i cristiani». E di seguioto: «Gli ebrei credenti sono per i cristiani fratelli gemelli, uniti da un vincolo che non può venir meno e che sarà unità alla fine dei tempi». Sull’essere gemelli si tratta di un giudizio storiografico, che lasciamo appunto agli storici. Per l’unità escatologica, chi vivrà vedrà. Sul piano teologico odierno, invece, dove sta l’errore multiplo e grave?
Il primo errore è quello di separare gli ebrei tra credenti e non credenti, come se il popolo di Dio, ‘am Israel, non fosse uno e unico e tutto solidale “gli uni con gli altri”! Tale separazione comporta la perniciosa conseguenza di fare di quei cosiddetti ‘credenti’ gli ebrei buoni e di tutti gli altri gli ebrei cattivi… (fino a qualche anno fa, i buoni erano gli ebrei che si facevano battezzare, gli altri erano infidi e perfidi; e per molti, ancora oggi, gli ebrei buoni sono sempre quelli morti, ma se difendono la propria vita non sono più buoni!).
Il secondo errore sta nel proiettare sugli ebrei una categoria che è essenzialmente cristiana, quella di ‘credenti’, quando tutt’al più per gli ebrei può usarsi soltanto quella di ‘osservanti l’halakhà’, distinzione quest’ultima che in vero non dicotomizza il popolo ebraico da una parte in un “Israele di Dio” (espressione paolina, in greco, tutta da interpretare e non da abusare oggi in chiave sionista o antisionista che sia) e dall’altra in un Israele… non di Dio; e di che? Del diavolo? Anche questa proiezione è perniciosa, perché non accetta che Israele si auto-definisca semplicemente su base halakhica, e l’halakhà non fa distinzione tra credenti e non credenti (mentre l’aggadà conosce una tipologia molteplice di ebrei, e paradossalmente senza mai giudicare chi è buono e chi non lo è).
Il terzo errore di Enzo Bianchi è credere che lo Stato di Israele non abbia alcun valore religioso. Per i cristiani non ne ha (ad eccezione di certi evangelici americani), ma per molti ebrei esso ha anche un valore religioso – forse non metafisico o assoluto, ma religioso sì – nella misura in cui lo Stato è uno strumento che assicura il legame del popolo di Israele alla terra del giuramento divino; nella misura in cui permette la radunanza degli ebrei attorno a Gerusalemme, per studiare e praticare i precetti della Torà; infine nella misura in cui oggi esso torna a essere luogo vitale per l’identità ebraica e simbolo dell’unità dell’intero popolo di Israele. Non riconoscere questa valenza anche religiosa dell’esistenza statuale di Israele, senza per ciò farne un idolo, significa non riconoscere la complessa identità ebraica, riducendola in un recinto ‘religioso’ utile e funzionale alla visione cristiana, in vero alla percezione che i cristiani hanno di sé stessi, ma che fa violenza all’autocoscienza storica degli ebrei, alla loro identità e appunto alla loro storia.
Da questi tre deriva un quarto errore, il pensare cioè che il dialogo tra mondo cristiano e mondo ebraico sia solo ‘tra credenti’. Il dialogo tra ebrei e cristiani ha senso solo se questi ultimi accettano la complessa identità dei primi e tengono nella dovuta considerazione la loro dimensione politica e soprattutto il nesso teologico tra la alleanza umano-divina attestata nella Torà e la terra in vista della quale la Torà è stata data a tutto Israele (non solo ai credenti o ai rabbini). È tale nesso che fa la differenza profonda tra le due fedi e che resta uno dei temi più difficili di quel dialogo, quando è serio e non un sentimentale appello a una astratta fraternità. Ecco in cosa consiste l’empatia che è mancata, dopo il 7 ottobre, da parte cristiana (tranne che in una piccola ‘chiesa di Dio’, se vogliamo capovolgere la categoria paolina impropriamente usata da Bianchi). È mancata la capacità di capire le ragioni di Israele e di esprimere vicinanza agli ebrei di carne e di sangue, agli ebrei così come sono e non come i cristiani vorrebbero che fossero.