22 Gennaio 2017

Jean-Paul Sartre, Riflessioni sulla Questione ebraica

Fonte:

IlSole24Ore

Autore:

Michele Battini

La post-verità antisemita

Secondo Sartre l’odio per gli ebrei si nutre dei nazionalismi nati dalla reazione anti-moderna e anti-illuminista

Settant’anni fa uscivano le Riflessioni sulla Questione ebraica di Jean-Paul Sartre, scritte dopo la “scoperta” della dimensione dello sterminio degli ebrei d’Europa. Ha ancora qualcosa da dirci questo libretto? Mossa da questa domanda l’Università di Gerusalemme ha promosso (il 18 e 20 dicembre scorso) una Conferenza Internazionale che ha riunito studiosi di diversi Paesi e promosso un dialogo di eccezionale importanza sul saggio di Sartre e la figura dell’ebreo nella cultura europea. Nel 1946, in tutta Europa era in corso una radicale epurazione dei collaboratori dell’occupazione nazista e, in Francia, dei sostenitori del regime di Vichy. Sartre, che era membro della commissione epurativa del Consiglio Nazionale degli Scrittori, era persuaso che «l’impegno» dello scrittore dovesse tendere alla «creazione e trasformazione permanente» della società che era uscita dalla guerra e dal fascismo. Questo “engagement” era anzi un «obbligo esistenziale». Ma molti degli scrittori che Sartre epurava, negli anni Trenta avevano condiviso con l’antifascismo socialista e comunista atteggiamenti “non conformistici”, come per esempio le simpatie per il corporativismo, le illusioni tecnocratiche, le polemiche antipolitiche tradotte in un sostanziale pessimismo nei confronti della lentezza e dell’inefficienza delle democrazie (temi, come si vede, molto attuali). Lo stesso Sartre, allievo di Martin Heidegger, non era stato certo immune dallo spirito irrazionalistico e anti-liberale degli anni Trenta. Ebbene, la conoscenza dello sterminio gli offrì il destro per credere di poter chiudere i conti con quel passato collaborazionismo degli intellettuali: con la tradizione europea che aveva generato i fascisti egli antisemiti, e con il rapporto della storia europea con quella ebraica. Sartre ricondusse la genealogia dello sterminio degli ebrei d’Europa alla catastrofe della sua stessa cultura. La domanda che uno storico dovrebbe farsi è se ci si debba limitare a una lettura storica del libro di Sartre. Del resto, la questione ebraica sta oltre il contesto dello sterminio novencentesco, e lo stesso Sartre la lega direttamente alla questione dell’antisemitismo come«concezione del mondo»e perfino «passione» e odio inesauribile. È l’antisemita che crea l’ebreo, sostiene Sartre, proponendo un’interpretazione fenomenologica e storica insieme dell’antisemitismo. L’ebreo di Sartre, ha scritto Jonathan Judaken, è «l’uomo condannato a esser ciò che non è, e a non essere ciò che è»; la rappresentazione dell’uomo alienato, della condizione umana nella società capitalistica. Questa lettura esistenziale induce Sartre a sganciare l’odio antiebraico dalla tradizione cristiana (di origine medievale) per radicarlo nella modernità e nell’economia di mercato. Così la passione antisemita si fa il motore che spiega la crisi europea e ne suggerisce la soluzione: per ricostruire la società nazionale lacerata dai conflitti sociali occorre svelare il complotto ebraico dei banchieri e dei finanzieri che genera la speculazione capitalista. L’antisemitismo diventa il paradigma di ogni forma di nazionalismo – e di populismo o sovranismo, come si direbbe oggi – in caccia di un capro espiatorio che spieghi la crisi e l’insicurezza attraverso un pericolo immaginario. Sartre arrivò però solo sulla soglia di una lettura storica dell’antisemitismo come tradizione incastonata nella storia cristiana, dunque d’Europa. Non comprese pienamente il corso inaugurato nel Settecento, con l’avvio del processo di emancipazione politica e la conquista dei diritti; un evento che diede un nuovo significato dello stereotipo medievale dell’ebreo usuraio trasformandolo nel simbolo della società di mercato e della speculazione. Oggi, si può dimostrare con dovizia di prove documentali che questo in tratto che unisce i rivoli delle polemiche anti-illuministiche a quelle contro la«feudalità finanziaria giudaica», e che hanno ingrossato il fiume del pensiero reazionario cattolico e del socialismo nazionale antisemita, servendosi di strategie che oggi chiameremmo di post-verità, di falsificazione di documenti e uso strumentale della storia e della pubblicistica. Pensiamo alla «feudalità finanziaria giudaica» forgiata da Louis de Bonald, all’attacco del socialista Toussenel contro i banchieri Rothschild, al movimento dei Cristiano Sociali viennesi, fino allo stereotipo del complotto della finanza ebraica nel discorso pronunciato nel settembre 1938, a Trieste, da Benito Mussolini. Dopo la Rivoluzione francese e l’integrazione degli ebrei nel corpo della nazione come cittadini eguali, si assiste a un mutamento fondamentale: l’«anticapitalismo antiebraico» diventa parte di una nuova polemica, quella contro lo Stato di diritto e la libertà di cittadinanza. L’ostilità sociale e religiosa contro gli ebrei si innesta in quella politica; l’attacco contro l’economia di mercato e i malvagi capitalisti si lega al disegno di restaurare un ordine nazionale che deve espellere dal suo corpo i traditori, gli ebrei, che l’emancipazione aveva incluso. Sono questi i semi del populismo nazionalista e “sociale” in cerca di nuovi capri espiatori. Il testo di Sartre contiene dunque una intuizione illuminante ma anche una incomprensione fuorviante. Egli intuì il nesso terribile tra economia moderna, modernità politica e antisemitismo (gli stereotipi evitavano la fatica di decifrare la modernità); spiegò chiaramente il fallimento dell’assimilazione, ma non comprese la specificità e la complessità della «questione ebraica», il fatto che la dimensione religiosa sia ineliminabile e che la conquista dei diritti universali ed egualitaria non risolve il problema se non riesce a prevedere il rispetto delle differenze, di questa differenza e di altre che possono alimentare nuovi capri espiatori. A Sartre sfuggì chela dimensione religiosa della civiltà ebraica è costitutiva della nostra cultura, un elemento ineliminabile dell’Europa, al pari della tradizione classica e di quella cristiana.

Professore ordinario di Storia della Politica all’Università di Pisa