Autore:
Riccardo Di Segni
Il 7 ottobre e la grande rimozione
È successo a tutti in questi mesi. Stiamo seduti davanti alla televisione accesa e sentiamo l’ennesima notizia o commento pieni di odio e disinformazione contro Israele. Possiamo reagire con la rabbia, con l’insulto diretto a chi parla, scrivere su Facebook, protestare con il direttore di testata, o rinchiuderci nell’apatia. Tutte reazioni comprensibili. Ma questo basta? Siamo sicuri che il nostro essere ebrei non ci richieda anche qualcos’altro, su un piano differente?
La tragedia del 7 ottobre e la guerra che ne è derivata hanno determinato reazioni in tutto il mondo e soprattutto nella comunità ebraica. Nella maggioranza dei casi si è trattato e continua ad essere un coinvolgimento politico con un’intensa partecipazione emozionale, quale che sia la posizione che si assume, dal sostegno totale e incondizionato alla critica. C’è un aspetto della reazione che, a confronto con gli altri prevalenti, è passato sotto tono, quasi relegato per molti alla sfera privata o di piccoli gruppi: la dimensione spirituale, o meglio religiosa. È la domanda, davanti a tutto quello che è successo e continua a succedere, se vi sia un senso, un messaggio dall’alto, una sollecitazione a interrogare le coscienze, una spiegazione nelle fonti antiche, una guida per uscirne fuori. Se ascoltiamo una notizia terribile dai fronti aperti ai confini di Israele reagiamo con il dispiacere, l’orrore; se sentiamo un commento polemico antiisraeliano in un blog televisivo o in un qualsiasi canale mediatico ci arrabbiamo, proviamo a rispondere, protestare, manifestare, esprimere solidarietà. Ma il più delle volte non ci poniamo la domanda: perché succede questo? Perché proprio a noi come popolo ebraico è riservato questo nuovo spargimento di sangue e questa campagna di demonizzazione? Che senso ha, alla luce della nostra storia e alla luce di ciò in cui ha creduto il popolo ebraico da millenni?
Vi sono diversi motivi per spiegare questa elusione della domanda. Il primo è il nostro modo di pensare che è sostanzialmente “laico”, portato a spiegare le vicende umane prima di tutto secondo una dinamica sociale e politica, che chiaramente non deve mancare, ma non è detto che debba essere esclusiva. Il secondo motivo è che la ricerca di un senso più profondo è impegnativa, sia perché è difficile trovare risposte esaurienti, sia perché spesso la risposta coinvolge le responsabilità di ogni persona che da spettatore coinvolto e arrabbiato si potrebbe trasformare in una sorta di indagato.
Per dirla in temini molto semplificati, in tutta la Bibbia, e poi nella letteratura successiva, corre un pensiero uniforme: se il popolo ebraico soffre è perché le sofferenze sono un campanello di allarme che ne denuncia comportamenti scorretti e richiama a correggere le proprie azioni.
Un intero periodo dell’anno, il suo inizio, il mese di Tishrì, è dedicato a questo tema. E quest’anno il 7 ottobre cade proprio in mezzo agli Yamim Noraim, tra Rosh hashanà e Kippùr. Ascoltiamo il suono dello shofàr, che come spiega Rambàm in questi giorni ha soprattutto il ruolo di una sveglia: state dormendo, svegliatevi, prendete coscienza. E il ruolo dello shofàr in questi giorni è simile a quello che svolgono determinati accadimenti nella vita. Sta suonando un campanello, da mesi.
In questo periodo ciascuno è invitato a riflettere sul suo comportamento, a riparare le azioni sbagliate, e a tornare indietro (è il significato letterale della parola teshuvà). Quale possa essere il comportamento scorretto di un singolo individuo, davanti al lungo elenco di precetti da rispettare, può essere facile dirlo. Le cose si complicano quando ci si chiede quale sia il comportamento scorretto di un intero popolo. E ancora di più si complicano quando si confrontano i comportamenti sbagliati del singolo o del gruppo con gli eventi negativi che li colpiscono; spesso ai nostri occhi c’è una sproporzione inspiegabile. Tutto questo rende difficili i ragionamenti, e discutibili le conclusioni. Si pensi ad esempio che malgrado vi siano state tante interpretazioni autorevoli sulla Shoah, dal punto di vista filosofico e religioso, nessuna appare convincente fino in fondo. E le domande prevalgono sulle risposte, che qualche volta rischiano di essere banali e divisive.
Lo stesso rischio si può correre tentando di interpretare religiosamente il 7 ottobre, come ha fatto qualcuno accusando e denunciando certi comportamenti della società israeliana. Una società della quale si apprezzano le virtù ma che non è certo una società ideale, attraversata come è da polarizzazioni, fratture e profonde incomprensioni.
Il 7 ottobre ha rafforzato in molti ebrei l’identità ebraica, il sentirsi popolo minacciato. Questo per molti ebrei lontani è già un inizio di teshuvà. Dubito però che abbia risvegliato una teshuvà più forte, singolare e collettiva. Non è facile declinare in termini attuali le rampogne dei profeti della Bibbia. Non è facile, e forse è impossibile, spiegare in termini religiosi perché certe cose sono successe e stanno succedendo, ma l’incapacità di dare una risposta non ci sottrae dal dovere di esaminare noi stessi e provare a migliorarci. Il senso diretto e immediato nel messaggio antico è che non dobbiamo solo dolerci o arrabbiarci o reagire politicamente, non siamo solo delle vittime reali o potenziali, siamo persone dotate di coscienza che ogni giorno la devono sottoporre ad esame, e che devono capire cosa va fatto sul piano personale e collettivo per migliorare noi e la società.