Fonte:
Corriere della Sera
Autore:
Donatella Di Cesare
Simboli neonazisti ora le denunce non bastano più
Simboli, vessilli, gesti, parole d’ordine che portano l’inconfondibile marchio fascista, se non apertamente neonazista, vengono ormai sempre più ammessi e tollerati nello spazio pubblico con una certa indulgenza che sfiora la malafede. L’aumento repentino favorisce l’assuefazione. E’ bene sottolinearlo. C’è chi reagisce con una scrollata di spalle: «Sono quattro esaltati!». C’è chi invece resta imperturbabile, ancorato alla certezza fideistica che la democrazia saprà sempre reagire. Come se non fossero stati eletti democraticamente i peggiori regimi. Non mancano i cittadini indignati le cui proteste, però, rischiano di svanire nel nulla, se non vengono finalmente prese serie misure di contrasto. Anzitutto quelle volte a sciogliere i gruppi responsabili. Ma la questione più seria riguarda il paradosso di questi simboli. Da un canto non si può non vedere che esercitano un enorme richiamo e riescono a mobilitare il risentimento contro gli immigrati, l’ancestrale odio antisemita. D’altro canto questi simboli, a cominciare dalla svastica, sono diventati via via più opachi. Chi oggi ne fa uso spesso non sa o non vuole sapere l’enormità dei crimini a cui così esplicitamente si richiama. Fallimento della cultura antifascista? Certo che no. Ma sdegno e irritazione non sono più sufficienti. Non basta né la manifestazione di piazza, né la leva dell’emotività. Occorre riconoscere che neofascismo e neonazismo non sono un «rigurgito del passato», bensì un fenomeno nuovo e non previsto nell’orizzonte del progresso. Non si può attendere che la storia faccia il suo corso e azzittisca i «pochi nostalgici». L’antifascismo non è dunque riducibile a quel lavoro di denuncia che, ogni volta concluso, deve invece ricominciare. Non c’è più la condivisione di un tempo. Per parlare ai più giovani non si deve dare nulla per scontato e occorrono nuovi e articolati argomenti culturali e politici.