Fonte:
www.mosaico-cem.it/
Autore:
Fiona Diwan
Rav Arbib risponde a Monsignor Ravasi: «Altro che vendetta, altro che Legge del Taglione. Il popolo ebraico sta tirando fuori risorse straordinarie»
«Credo che in questo momento il popolo ebraico stia tirando fuori risorse straordinarie, che stia dando prova di grande coraggio e energia, una capacità formidabile di superare il buio in quello che è certamente il peggior momento dal 1945. Lo vediamo in Israele con la prova di vicinanza, di unione e solidarietà espressa dalla società civile, che sta dando il meglio di sé, esprimendo un senso di unità che ha saputo congelare, davanti al pericolo, tutte le conflittualità. Lo abbiamo visto con la capacità incredibile del popolo ebraico di compattarsi e superare le divergenze, in Diaspora come in Israele, di stringersi gli uni agli altri e sentirsi parte di un tutto».
Parla così, con accenti accorati e commossi Rav Alfonso Arbib, Rabbino capo di Milano riflettendo ad alta voce, in questa intervista, sugli sviluppi dell’attualità e della situazione globale, in merito al conflitto in corso e al nuovo antisemitismo.
«Perché la tradizione ebraica considera Yaakov, il patriarca per eccellenza? Perché – come sostiene ad esempio Rav Jonathan Sacks -, Yaakov è colui che nei momenti più cupi della propria vita, perso nella notte, da solo, senza niente e senza nessuno, una pietra per cuscino e per giaciglio, riesce a sognare la scala che arriva al cielo, riesce a cogliere la presenza del divino ovunque, anche nella disperazione. Ecco, Yaakov è l’emblema della capacità del popolo ebraico di reagire nei momenti più neri, la capacità di vedere oltre, di vedere una scala su cui gli angeli salgono e scendono, in collegamento con un proprio Sé più alto da cui attingere forza e fiducia».
Rav Arbib riflette su alcune pagine criminali della storia ebraica, ad esempio sul pogrom scatenato nella Polonia del Seicento dall’atamano cosacco Bogdan Chmel’nictki, un personaggio sanguinario, le cui gesta efferate sono entrate nella memoria ebraica di generazioni. «All’epoca di Chmel’nictki, moltissimi ebrei furono assassinati e altrettanti rapiti e poi venduti come schiavi nei mercati d’oriente, lontanissimo dai loro villaggi di origine. Ebbene, la cosa incredibile fu che nel giro di pochissimo tempo questi schiavi furono tutti riscattati, la loro libertà ripagata con denaro, e tutti, nessuno escluso, poterono fare ritorno alle loro case. Potete immaginarlo? Riuscire a racimolare i soldi dopo tutti quei saccheggi e quel dolore, scrollarsi di dosso il senso di lutto e guardare avanti, e poi fare l’impossibile per riportarli indietro? Ecco, sono azioni incredibili, la prova di una forza morale e di una determinazione etica uniche, stupefacenti». Perché il riscatto dei prigionieri non è solo una mitzvà codificata ma è la certezza che non verrai dimenticato né abbandonato al tuo destino, la certezza che non verrai lasciato solo.
Rav Arbib, abbiamo ascoltato recentemente parole inquietanti da parte di Monsignor Gianfranco Ravasi, il raffinato esegeta biblico, il ministro della cultura vaticana ed esponente di quella Chiesa che si vorrebbe rinnovata, che ha riesumato la Legge del Taglione per definire la risposta militare di Israele a Hamas, una risposta ispirata all’idea di feroce revanche. Il tutto avvenuto durante la trasmissione su La7, con Massimo Gramellini. Ne è scaturita una dura polemica…
Siamo ben oltre alla legge del taglione, “dell’occhio per occhio”, (che comunque secondo la tradizione ebraica prevede non le amputazioni ma un risarcimento in denaro), una legge che, secondo le parole di Mons. Ravasi, ha comunque una sua logica di equità; siamo all’idea della vendetta totale, tant’è vero che viene tirato fuori il personaggio di Lemech, della stirpe di Caino, che è il simbolo della vendetta per eccellenza.
L’idea suggerita è che Israele non stia cercando giustizia ma solo vendetta. Questa idea viene ripetuta da più parti cioè che ci sia una volontà di vendetta e che ci sia una deliberata scelta di colpire i civili e non, come sostiene Israele, la necessità di colpire Hamas che purtroppo causa terribili effetti sulla popolazione civile. Si tratta ovviamente di una tragedia. Ma non di una vendetta.
Anche se questa non era l’intenzione, ritengo che l’uso del termine vendetta sia estremamente pericoloso perché così dicendo si ripropone una visione da vecchio cristianesimo, la visione dell’eresia di Marcione.
Ma la cosa più grave è che ci sia il rischio anche al di là delle intenzioni di reintrodurre l’immagine dell’ebreo vendicativo che ammazza i bambini, l’omicidio rituale e di riciclare la vecchia accusa del sangue che non a caso sorse dopo la Prima Crociata (quando gli ebrei furono accusati di volersi vendicare dei massacri di Spira, Worms e Magonza uccidendo i bambini cristiani, ndr). Sono dei leitmotif che ricordano il vecchio armamentario dell’antigiudaismo cristiano.
Sembra anche che stiano rispuntando quelle opposizioni duali, quel sistema oppositivo che pensavamo archiviato dal Concilio Vaticano II e che ha dominato la teologia cristiana per secoli: il perdono cristiano contro la vendetta ebraica, l’Amore contro la Legge, la misericordia versus la giustizia, lo spirito contro la materia, il Dio degli ebrei rozzo e vendicativo contro il dio d’amore pieno di bontà cristiana…
Sulla leggenda nera degli ebrei vendicativi mi si lasci dire che se davvero fossimo stati vendicativi ci saremmo vendicati di ogni cacciata in cui gli ebrei siano stati privati di terre, case e a volte della vita stessa.
Che dire degli ebrei mediorientali che per decenni hanno nutrito la nostalgia per i Paesi da cui furono cacciati, dopo millenni che vi abitavano, portando attaccato alla veste un amore immenso per il loro Paese di origine da cui erano stati espulsi senza poter portare via nulla, neppure la chiave di casa? Altro che vendicativi. Mai ci siamo vendicati dei milioni di morti procurati dalle Crociate, dai pogrom, dalle rivolte sociali di cui eravamo i capri espiatori, dalle espulsioni, dai soprusi, dagli assassinii… Voglio saperlo: quand’è che ci siamo vendicati?
Rav, lei ha parlato di fallimento educativo davanti a questo violento risorgere del sentimento antisemita…
Sì, un’autentica débacle educativa. La domanda che tutti dovremmo porci è: che cosa faremo domani con la Giornata della Memoria? Come orienteremo i nostri rapporti con la Chiesa cattolica? Come e che cosa comunicheremo? È ovvio che dopo tutto questo niente potrà più essere come prima. Servirà uno sforzo creativo e di immaginazione per inventare una nuova grammatica della comunicazione.
Quale futuro per il Dialogo ebraico-cristiano?
Francamente non saprei. Posso solo constatare con amarezza la scarsa reazione da parte del mondo cattolico al massacro del 7 ottobre, l’ambiguità, la ricerca di equidistanza, la mancanza di empatia. A parte qualche rara eccezione, colpisce quanta poca rilevanza abbia dato all’intera questione. Ed è un’ipoteca che peserà sul dialogo.
Non dimentichiamoci il fatto che il Dialogo ebraico-cristiano partiva dal presupposto di smetterla con “l’insegnamento del disprezzo”, come lo chiamava lo storico Jules Isaac, di farla finita con la demonizzazione dell’ebreo e di Israele, eterno capro espiatorio. Di fatto, si sta consumando una distanza che pone una grossa pietra sul futuro del dialogo. Per anni abbiamo parlato di fratellanza, di vicinanza, di amicizia… Dov’è tutto questo oggi? Non vedo una adeguata partecipazione al dolore e alla sofferenza degli ebrei, alla loro disperazione.
Nel mondo della Chiesa tuttavia, qualcuno ha ammesso che si tratta del più grave atto contro gli ebrei dal 1945…
Pochi. Non amo i paragoni con la Shoah ma davvero il 7 ottobre risveglia quel vissuto. La Chiesa dovrebbe essere un’autorità morale ed è ahimè la sua non-reazione che lascia sbigottiti. Per non parlare del silenzio delle femministe e di molti enti morali, che si battono per i diritti e le libertà civili. Ho sentito pronunciare parole terribili, ingiuste, prive di equità, che vanno ben al di là dell’antisemitismo, parole irresponsabili, incendiarie, avvelenate.
C’è modo di coltivare un po’ di fiducia?
Si, malgrado tutto. C’è anche qualcosa di buono in quello che stiamo vivendo. Come ho già detto, c’è la reazione formidabile del popolo ebraico e di Israele nel momento più nero della nostra storia recente. E poi le tante attestazioni di amicizia da parte di giornalisti, opinionisti, personaggi pubblici da Olaf Scholz a Jurgen Habermas, da Robert Habeck allo stesso Joe Biden (solo per citarne alcuni) e una parte considerevole della classe politica italiana.
Oggi suona forse paradossale, ma sono convinto che malgrado tutto ne verremo fuori più forti di prima.