Fonte:
www.huffingtonpost.it
Autore:
Sarantis Thanopulos
La crisi della cultura woke
Voleva mobilitare gli oppressi e la società civile per promuovere una politica di inclusione delle diversità. Gradualmente è stata infiltrata dalla “cancel culture”, dal “politicamente corretto” e dall’ideologia del “genere”, che l’hanno resa petulante, intollerante e aggressiva nei confronti di ogni dissenso
Il termine “woke” è stata usato con varie accezioni simili (“sveglio”, “all’erta”, “consapevole”), già a partire dal secolo scorso, dai movimenti americani di opposizione alle ingiustizie sociali e alle discriminazioni razziali e sessuali. Il suo uso rilevante più recente è stato fatto dal movimento “Black lives matter” (le vite dei neri contano) che è finito prigioniero di strumentalizzazioni, perdendo la sua forza propulsiva, ma è riuscito a scuotere, per un attimo, le coscienze.
La cultura woke voleva mobilitare gli oppressi e la società civile per promuovere una politica di inclusione delle diversità che è il fondamento di ogni democrazia. Gradualmente è stata infiltrata dalla “cancel culture”, dal “politicamente corretto” e dall’ideologia del “genere”. L’infiltrazione l’ha resa petulante, intollerante e aggressiva nei confronti di ogni dissenso e del pensiero critico in generale.
Il wokismo ha commesso un errore serio di prospettiva interpretando l’inclusione in termini di aggiustamenti qui e là senza un progetto di superamento reale delle condizioni che favoriscono l’esclusione. Un esempio significativo viene dall’Università di Princeton. Per eliminare una discriminazione oggettiva, il vantaggio sociale dei ragazzi bianchi sui i ragazzi neri nell’apprendimento del greco e del latino che ne favorisce l’ingresso alle facoltà umanistiche, si è deciso di abolire la conoscenza delle lingue antiche come requisito per l’ammissione. Senza rendere obbligatorio il loro apprendimento durante gli studi universitari. Si è pensato semplicemente che gli studi classici si possono fare anche leggendo le fonti tradotte in inglese. Questa inclusione con l’appiattimento dell’uguaglianza verso il basso non è una vera inclusione. E non risolve affatto il problema dell’esclusione: il privilegio negli studi liceali di cui tuttora godono gli studenti bianchi.
La cancel culture viene dallo stesso ottimismo della volontà slegato dalla ragionevolezza e dal buon senso. Aspira a cancellare tutto quello che nelle testimonianze del passato -dai monumenti celebrativi ai testi a noi tramandati dagli antichi- è dalla parte dell’ingiustizia. La cancellazione fa di tutta l’erba un fascio. Se a volte la rimozione di monumenti che esaltano le tirannie è sacrosanta, nella maggior parte dei casi le statue e gli edifici controversi sono intrinsecamente legati al gusto e alla cultura di un’epoca e fanno parte della nostra storia. Questo è più evidente nei testi: perfino Mein Kampf è significativo per comprendere ciò che siamo stati, ciò che, in parte, siamo tuttora e ciò che, in determinate condizioni, potremmo tornare a essere. Cancellare poi le parole di Aristotele che difendono la schiavitù o il discorso misogino di Ippolito in Fedra, è insensato. Nel primo caso trovano voce, in un pensiero potentemente critico, pregiudizi gravi (ancora presenti tra di noi in forme nuove e forse più insidiose) che mostrano come la giustizia avanza qui e cede là, che sia la buona sia la cattiva eredità vadano reinterpretate e trasformate. Nel secondo la misoginia è inserita in un intreccio di prospettive, tuttora attuale, che mette a fuoco il conflitto tra la passione erotica della donna e l’autoreferenzialità del maschio.
Della cancel culture fa parte il politicamente corretto: la convinzione che le parole siano cose. Sì pensa che epurando il linguaggio dalle “cattive” parole (veicolo di offesa e discriminazione) e usando al loro posto parole “buone” si creino buoni sentimenti e una buona realtà. L’esperienza ci insegna che le buone parole non creano buoni sentimenti, ma ipocrisia, mentre le cattive parole (il politicamente scorretto) i cattivi sentimenti e il consenso alle cattive idee li creano eccome. L’inseguimento della purezza, la pretesa che un ideale astratto prenda in mano la nostra vita e, ignorando il passato, determini il nostro presente e il nostro futuro, crea un fanatismo salvifico che è perdente. Quando l’“acqua santa” incontra il “diavolo” (Trump o chi per lui) ha la peggio sempre.
A tutto questo si è aggiunta l’ideologia del “genere”, creata dallo spostamento di una parte del movimento LGBT dalla difesa della libertà dei modi di vivere la propria identità e il proprio orientamento sessuali alla costruzione di identità astratte dalle relazioni erotiche. La deriva identitaria ha portato al movimento LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali più “altro”): un accumulo di identità eterogenee non relazionate tra di loro in cui il + finale apre a un’espansione classificatoria senza fine, nella direzione della neutralizzazione dell’eros che la categoria “asessuali” indica. La distorsione del concetto di “genere”, che nato per indicare l’influenza della società sui sessi e sulla sessualità ha finito per significare la percezione soggettiva dell’appartenenza a un’identità disincarnata, priva di corporeità, ha aperto la strada all’inseguimento del “terzo genere” (il neutro) o di altri generi fantomatici di cui nulla si sa. Questo in nome della difesa dei transessuali in cui tuttavia il sesso psichico (la percezione soggettiva dell’identità sessuale) resta sempre ancorato all’essere “donna” o “uomo” e se si dissocia dal sesso biologico non è per restare incorporeo, ma perché si lega al corpo del sesso opposto.
Se l’inclusione non si prende cura delle differenze e della loro intesa (del modo con cui si relazionano tra di loro eroticamente, affettivamente e mentalmente), le identità si aggiungono l’una all’altra indifferentemente. Gli attivisti “woke” pensano ai diritti in modo astratto dai desideri delle persone che, teoricamente, difendono. Combattono la norma ingiusta con la norma giusta ignari del fatto che la norma è sempre un pensiero unico dettato dalla legge del più forte. Il pensiero unico li considera, giustamente, come sua emanazione settaria e li combatte come eresia.