19 Luglio 2016

Richard Wagner, Il Giudaismo nella musica, Mimesis

Fonte:

La Stampa

Autore:

Sandro Cappelletto

Wagner: l’ebreo si redime attraverso l’annullamento di sé

Esce la prima traduzione integrale del pamphlet II giudaismo in musica

Un misto di cinismo e di rimozione delle proprie radici paterne

«L’ebreo, che come  è noto ha un Dio tutto suo, ci colpisce già nella vita comune per il suo aspetto esteriore: a qualsiasi nazionalità europea appartenga troviamo che egli abbia qualcosa di ripugnante». «Ciò che ci ripugna particolarmente nel modo di parlare degli ebrei è il loro accento». «L’ebreo non ha mai avuto un’arte propria e perciò la sua vita non ha mai posseduto un valore artistico». «Divenire uomini con noi, per l’ebreo significa innanzitutto cessare di essere ebreo. L’ebreo prenda parte a quest’opera di redenzione attraverso l’annullamento di sé». È il 1850 quando Richard Wagner, firmandosi con lo pseudonimo di K. Freigedank (Libero pensatore), pubblica sulla Nuova rivista musicale di Lipsia il pamphlet Il giudaismo nella musica. L’editore Mimesis ne propone ora una nuova edizione italiana, curata da Leonardo Distase. Completano il volume un’importante postfazione del curatore e la traduzione della seconda parte del saggio. Uscita nel 1869 è altrettanto significativa della prima perché Wagner – giunto ormai al successo e che ora si firma con nome e cognome – si presenta come vittima di una campagna d’odio scatenata, anche sui giornali, dagli ebrei contro di lui. Si tratta della prima traduzione integrale dopo quella apparsa sulla Rivista musicale italiana del 1897. Era ora.

Le ragioni della polemica

Wagner è attivamente impegnato nella polemica contro gli ebrei per tre motivi: il primo è il suo spregiudicato cinismo («cinismo da portafoglio», lo definisce Franz Liszt, come si può leggere nella raccolta dei suoi scritti dedicati a Wagner appena pubblicata dal Saggiatore) che, potendo contare su un ampio settore di opinione pubblica tedesca già sensibile alla propaganda antisemita, lo porta – in anni in cui ancora stentava a emergere – a screditare con ogni mezzo i compositori ebrei più affermati: Halévy, Mendelssohn, Meyerbeer (che lo aveva aiutato nei periodi più difficili), Offenbach. Il secondo motivo risiede nel profondo: il vero padre di Wagner, e secondo marito di sua madre, che lo sposò quando Richard aveva appena un anno, era l’attore Ludwig Geyer, che si diceva avesse origini ebree. Wagner lo sapeva (da ragazzo era stato iscritto a scuola con il nome di Richard Geyer), lo sapevano la moglie Cosima, i primi biografi, lo sapeva anche Friedrich Nietzsche che – finiti i tempi della loro amicizia – definì Wagner «un incomparabile hystrio, il più grande mimo». Non prima di avergli proposto di usare l’immagine di un avvoltoio come stemma araldico: «Geyer», in tedesco, si pronuncia e quasi si scrive come «Geier», avvoltoio. La prima edizione, nel 1870, di Mein Leben, l’autobiografia di Wagner, reca in copertina l’immagine di un avvoltoio. Si può aggiungere, in questo complesso meccanismo dove cinismo e rimozione – Wagner ne era espertissimo: liquidò come semplice «estetismo» la sua attiva partecipazione ai moti rivoluzionari di Dresda del 1848 accanto a Bakunin – si danno la mano, che il teatro musicale di Wagner è attraversato da personaggi maschili che ignorano chi sia il loro vero padre: Sigfrido, Tristano, Parsifal. Sul terzo motivo maggiormente si sofferma Distaso che, riprendendo intuizioni di Theodor Adorno e di Enrico Fubini, ritiene II giudaismo nella musica non un episodio, ma «un anello della ferrea catena del pensiero di Wagner». «Tornare al culto del dio Wotan e al mito dei Nibelunghi vuol dire per lui recuperare il dio e la sua stirpe germanica togliendo di mezzo ogni tradizione ebraico-cristiana». A questo scopo, è essenziale rimuovere gli ebrei dalla storia europea e negare loro la possibilità di esprimere qualsiasi arte, qualsiasi pensiero. Programma politico e programma artistico, in Wagner «coincidono»: «l’opera d’arte dell’avvenire» celebrerà la ricongiunzione del popolo tedesco con i suoi miti fondanti, contro «l’arte della pura gradevolezza», tipica della musica vocale italiana e francese. Negli anni a venire, Wagner recupererà la figura di Cristo come mistico «redentore», affidando a Parsifal, il suo ultimo «dramma musicale» (1882), il compito di sanare la frattura tra l’Occidente, il sacro, la salvezza.

In nome del mito

Si esce dalla lettura del Giudaismo nella musica provando disgusto per la spregiudicatezza dell’autore e la ferocia delle sue considerazioni, che come dimostrerà la storia europea del ‘900 saranno condivise da molti, anche per quanto riguarda «l’annullamento» degli ebrei, cioè la «soluzione finale». La grandezza del musicista rimane ovviamente intatta: Wagner è stato, come scriverà Thomas Mann, «il redentore dell’opera in nome del mito» e la tesi di fondo dell’intero suo teatro musicale è un atto di accusa contro l’avidità che governa gli uomini e li porta a tradire ogni affetto, ogni patto, travolgendoli fino all’autodistruzione. Wagner è il compositore del tramonto, non del trionfo dell’Occidente ariano. Ma è inevitabile, per contrasto, pensare a Giuseppe Verdi. A «Patria oppressa», il coro dei profughi scozzesi nel Macbeth (1847), a «Va’ pensiero», il coro degli ebrei prigionieri in Babilonia, del Nabucco (1842). In quelle sofferenze il nostro compositore vede riflesse le umiliazioni che tutti i vinti, senza alcuna distinzione di religione, di luogo e di tempo, sempre patiscono. E si ama ancor più la sua immensa, laica umanità, che non riusciva a trovare «ripugnante», a odiare nessuno, né per convinzione, né per calcolo. Tantomeno un intero popolo.