Fonte:
Il Piacere della Lettura
Autore:
Sofia Ventura
Pop Shoah – E l’Olocausto diventò un grande show
La trasmissione della memoria storica è stata fagocitata dalla contemporanea società dello spettacolo e ne ha assunto i caratteri rischiando di perdere il vero significato
Può essere sorprendente trovare tra i tavoli di una libreria un titolo come “Pop Shoah”. Come può una tragedia come quella dello sterminio degli ebrei d’Europa essere interpretata come un prodotto pop? Ebbene, può, così è in buona parte trasmessa, a livello popolare, la memoria della Shoah. È su questo che indagano diversi studiosi in una serie di saggi raccolti in un volume, curato da Francesca R. Recchia Luciani e Claudio Vercelli, pubblicato da Il Melangolo (2016), dal titolo “Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico”.
DA DIVERSE angolazioni i contributi di questo interessante e originale volume esplorano la rielaborazione del concreto fatto storico dello sterminio – che ha conosciuto un crescendo di attenzione, come rammentano i due curatori, a partire dagli anni Settanta — in contenuti, simboli, narrazioni, format che sono andati a forgiare l’immaginario popolare sulla Shoah, non sempre (anzi, raramente) aiutandone la comprensione, ma piuttosto producendo attorno a essa un universo emotivo destinato spesso a rimanere a un livello di superficie. La trasmissione della memoria della Shoah è stata fagocitata dalla contemporanea società dello spettacolo e ne ha assunto i caratteri: la banalizzazione dei contenuti dell’oggetto raccontato, ma anche la sua spettacolarizzazione, appunto, attraverso molteplici strategie. C’è l’ “orrificazione” della rappresentazione e il luogo Auschwitz, che non avrebbe bisogno di nulla per apparire il luogo di morte che fu, diventa un set cinematografico che deve visivamente richiamare l’orrore. C’è la “carinizzazione” dei personaggi, si pensi ad Anne Frank, della quale è stato raccontato (in rappresentazioni teatrali, musical e film) anche il giovanile amore, ma non il calvario del campo sino alla morte, come ricorda Fiorenza Loiacono nel suo saggio. C’è l’edulcorazione del contesto che rifiuta la tragedia e indulge nella speranza della vittoria del Bene sul Male, per esempio, sempre con Anne Frank, con la ripetizione all’infinito della frase «Nonostante tutto, ancor credo nell’intima bontà dell’essere umano», una frase certo presente nel Diario, ma che si scontra con la tragica esperienza di Anne e soprattutto con altre sue parole sull’impulso dell’uomo a distruggere, uccidere, assassinare e infierire.
DI PARTICOLARE interesse è l’attenzione posta su quel potente strumento di produzione della cultura di massa che è il cinema nei saggi di Claudio Gaetani e Damiano Garofalo. Gaetani pone l’accento su “Schindler’s List” di Steven Spielberg come l’opera che ha rappresentato un momento di passaggio nella percezione della Shoah, facendo immergere direttamente lo spettatore nell’esperienza della persecuzione, puntando quindi sulla dimensione emotiva piuttosto che sulla forza documentaristica, per esempio, del celeberrimo, e precedente, “Shoah” di Claude Lanzmann. Con il rischio di coinvolgere in un’emozione del presente che perde di vista cause e specificità del fenomeno storico. Cause e specificità che si perdono anche nel “cappottino rosso” che Spielberg pone al centro della scena in bianco e nero osservata dall’alto da Schindler e che si tramuta in un’icona pop, nella quale — ci dice Garofalo — arriva a identificarsi la stessa Shoah e, quindi, un’idea di “male assoluto” che trascende lo specifico sterminio degli ebrei europei. Ma l’idea di un “male assoluto” finisce per scivolare in una banalizzazione che può portare a considerare un evento tragico come qualcosa di altro da sé (proprio il contrario dell’insegnamento che ci proviene da Hannah Arendt e dalla sua concettualizzazione della “banalità del male”) e, nel caso della Shoah, come qualcosa di concluso — come osserva nel suo contributo Cristiano-Maria Bellei — una parentesi in cui aveva dominato una follia ormai passata e che dunque non interroga la coscienza umana.
UN APPROCCIO, questo, che troviamo spesso nella retorica della memoria, anch’essa vittima degli stereotipi della cultura pop e che, anche quando interroga, non interroga la storia o la complessità della psicologia e dell’agire umano, ma piuttosto si lascia portare da emozioni e rappresentazioni autoconsolatorie, dove il male è altrove e si confonde in eventi tra loro diversi che oggi concorrono in modo un po’ grottesco all’istituzionalizzazio-ne in Giornate di “diverse memorie”, in un tempo senza storia. Ma, come ha osservato nel suo saggio Natascia Mattucci, «se lo sterminio degli ebrei d’Europa ha una lezione da insegnarci, questa non passa per una sovrapponibilità con quel che ci colpisce nel presente». Ma il presente che assorbe il passato, divenendo “emotivo” ed “eterno”, costituisce la maledizione della cultura della società dello spettacolo e si frappone tra gli eventi e la nostra capacità di comprenderli criticamente.