Fonte:
La Stampa
Autore:
Francesca Paci
“Clima cupo e di violenza mi ricorda gli anni Settanta”
La storica: “Andrei a confrontarmi con gli studenti, dobbiamo capire La cultura israeliana è l’avanguardia dell’opposizione a Netanyahu”
Roma. Parlare con gli studenti che occupano La sapienza? La storica Anna Foa ci pensa. «Andrei». Andrebbe, dice, perché silenziare la cultura israeliana, che è l’avanguardia dell’opposizione al governo Netanyahu, non semina la pace per i palestinesi ma è un atto di guerra. E l’umore belligerante di queste ore nelle università italiane le ricorda gli anni più bui del suo impegno politico, quando tutti i colori del’68 si spensero nella violenza.
Dopo l’università di Torino, La Sapienza di Roma. Gli studenti che occupano il rettorato, chiedendo l’interruzione dei rapporti con gli atenei israeliani fino al cessate il fuoco a Gaza, sono il corrispettivo generazionale dei campus americani in rivolta contro la guerra in Vietnam o c’è altro?
«Più che Berkeley, questo clima mi ricorda l’avvento degli autonomi alla Sapienza a metà degli anni’70, un periodo di occupazioni continue e violente molto diverso dal’68. Siamo lontani anche dall’appello dei professori contro le università israeliane diffuso qualche mese fa, la scena è ormai tutta del collettivo Cambiare Rotta, un gruppo estremista venuto fuori all’improvviso i cui proclami fanno riferimento alla lotta dei terroristi, evocano Barbara Balzerani, parlano di Gaza ma anche di Ucraina con posizioni assolutamente filo Putin. Siamo oltre il boicottaggio di Israele. La soluzione non passa di certo dai manganelli, ma bisogna capire cosa sta succedendo nei nostri atenei».
Qualche ipotesi?
«C’entra sicuramente la reazione spropositata di Israele a Gaza, un tunnel dal quale pare non si riesca ad uscire. Centra la guerra russa in Ucraina. C’è una convergenza di fattori. Non sono complottista e non credo in regie occulte dietro le quinte, ma vedo una forte matrice ideologica, molti studenti sono comunisti e l’Italia è il Paese dove il sostegno a Putin è più massiccio. Poi c’è il rapporto con Israele. Personalmente non vedo l’ora che Netanyahu sconti le sue responsabilità politiche anche sul 7 ottobre e ho accolto con favore l’astensione americana sull’ultima risoluzione Onu, ma il boicottaggio è un’assurdità. Forse aveva senso quando riguardava i prodotti dei territori occupati, poi però è degenerato, ha invaso l’ambito accademico che è lo spazio dove l’opposizione a Netanyahu si materializza, dove gli studenti ebrei studiano con i palestinesi, do Il collettivo Cambiare Rotta un gruppo estremista i cui proclami parlano di Gaza, cli Ucraina con posizioni filo Putin ve il dialogo abbatte i muri».
Eppure non è solo Israele, è successo anche due anni fa quando la prima reazione all’invasione dell’Ucraina fu la presa di distanza dalla Russia e dalla sua cultura fino ad obiettare sul corso universitario dedicato a Dostoevskij.
«C’è sempre stata la tendenza a non valutare gli artisti e gli scrittori in base alla loro opera ma in base alla loro posizione politica. Molte invettive contro gli scrittori russi all’indomani dell’invasione dell’Ucraina sono state eccessive, bisogna anche dire però che allora ci fu bisogno di chiedere ad alcuni di loro di prendere posizione contro il Cremlino mente gli scrittori israeliani lo fanno da sempre e con forza».
I grandi scrittori israeliani come David Grossman non lesinano critiche al proprio governo ma mettono in guardia i pro-palestinesi dalla trappola del boicottaggio culturale. Perché l’Italia che legge i loro libri non ne prende in considerazione l’analisi politica?
«Non credo che gli studenti protagonisti delle occupazioni di questi giorni leggano Grossman. In Italia, come in Europa, c’è stato un momento di grande entusiasmo per la letteratura israeliana che è finito con la stagione politica di Natanyahu. Ma gli scrittori sono l’avanguardia dell’opposizione a Netanyahu. Nel libro “Contro il fanatismo” Amos Oz denunciava il sionismo religioso, altri hanno affrontato il tema del post-sionismo: gli scrittori israeliani riflettono un Paese pieno di tensioni e diversissimo dal monolite contro cui protestano gli atenei italiani. Il boicottaggio della cultura toglie voce in primo luogo a chi in Israele si è battuto contro la politica di Netanyahu, che è simmetrica a quella di Hamas, e non aiuta la pace».
A 16 anni era in piazza contro Tambroni, a 24 era a Valle Giulia. Da pacifista di sinistra, dove sarebbe oggi se fosse una studentessa?
«Sarei impegnata ma cercando di capire, studiando. Ho paura di quanto poco sappiano questi studenti. Usano vecchie parole d’ordine senza consapevolezza. Forse i docenti dovrebbero insegnare meglio. A 80 anni io non posso più e scrivo. Scrivo per il cessate il fuoco a Gaza, per il rilascio degli ostaggi israeliani, per la fine dell’era Netanyahu, per scongiurare il mondo in cui vivremmo se vincesse Trump».
In America le proteste contro Israele vengono associate al fenomeno woke. Vale anche per l’Italia, dove però, finora, il risveglio anti-coloniale non pare aver attecchito?
«L’Italia non ha la consapevolezza del proprio colonialismo, è vero. E ci sono aspetti positivi nel movimento woke. Gli studenti filopalestinesi che occupano oggi gli atenei riprendono vecchie parole d’ordine sulla colonizzazione israeliana del dopo 1967 in cui ci sono elementi di verità, ma andrebbe tutto rivisto e contestualizzato invece di evocare con facilità l’apartheid».
Non è apartheid il regime in cui vivono i palestinesi?
«E una definizione sbagliata sul piano politico che, per altro, ho sentito per la prima bocca sulla bocca di amici israeliani ai tempi della costruzione del muro. Ha una forte radice di propaganda, come la parola genocidio. Parlare di crimini di guerra invece ha basi concrete. Certo, nello sviluppo del sionismo dopo’67 ci sono elementi del vecchio colonialismo ma sono invece assolutamente assenti nella nascita d’Israele».
Vede lo spettro dell’antisemitismo nascosto dietro la difesa dei palestinesi?
«In questo caso vedo soprattutto l’anti-americanismo di tanta sinistra europea e italiana che non passa. Ciò non significa che l’antisemitismo non stia tornando a galla, era evidente per esempio nel rifiuto della manifestazione per le donne del 25 novembre di denunciare gli stupri di Hamas e lo era nelle parole indecorose contro la senatrice Liliana Segre. Sono sempre stata scettica rispetto agli allarmi sull’antisemitismo in agguato ma devo ammettere che molto è cambiato. In un altro momento avrei giudicato le polemiche sulla vittoria “scontata” del film “La zona d’interesse” come parole al vento ma un indizio dietro l’altro fa una prova. Gridare al lupo al lupo però non serve, bisogna parlare, spiegare».
Parlerebbe ai ragazzi del collettivo Cambiare Rotta?
«Mi precipiterei se mi invitassero. E’ possibile che non mi lascerebbero dire nulla come è successo a David Parenzo e Maurizio Molinari o forse no, forse non essendo una giornalista avrei la chance di essere ascoltata. L’unica arma degli intellettuali è l’argomentazione, la parola»
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