Fonte:
Avvenire - L'Osservatore Romano
Autore:
Stefania Careddu - Giacomo Gambassi - Jorge Mario Bergoglio/papa Francesco
Lauder: tra ebrei e cattolici rapporti mai stati migliori
Parla il presidente del Congresso ebraico mondiale
«I rapporti tra cattolici ed ebrei a vari livelli non sono mai stati migliori». E un “ruolo eccellente” è sicuramente quello giocato da papa Francesco. Non ha dubbi Ronald Lauder, il presidente del World Jewish Congress (Wjc), che ha partecipato all’udienza generale “inter-religiosa” voluta dal Pontefice per celebrare il 50 anniversario di Nostra aetate, la dichiarazione con cui il Concilio Vaticano II ha rivoluzionato le relazioni con l’ebraismo e le altre religioni non cristiane. «Quello che è avvenuto dal 1965 in poi è un miracolo», ha scandito Lauder che ieri mattina ha avuto modo di incontrare privatamente Bergoglio, insieme ad una piccola delegazione del Wjc. «Francesco – ha riferito il presidente ai giornalisti nel corso di una conferenza stampa- ci ha detto che attaccare gli ebrei è antisemitismo, però anche un attacco deliberato contro lo Stato d’Israele è antisemitismo, e ha aggiunto che ci possono essere disaccordi dei governi su questioni politiche, ma Israele ha diritto di esistere in prosperità e sicurezza». Questo, ha sottolineato Lauder, «è molto importante per il popolo ebraico perché spesso l’antisemitismo viene nascosto dietro l’anti-israelismo». Ugualmente sono state apprezzate dai 150 esponenti della comunità ebraica arrivati da diverse parti d’Italia per l’udienza generale le parole con cui Papa Francesco ha condannato ancora una volta «pubblicamente, davanti a migliaia di persone» l’antisemitismo. II Papa, inoltre, «è sempre stato chiaro nel ribadire l’importanza delle relazioni tra ebrei e cattolici», ha osservato Lauder per il quale anche «l’apertura degli archivi vaticani ha contribuito a migliorare i rapporti». Il presidente del Wjc, organismo che rappresenta 100 Paesi e 14 milioni 200 mila ebrei sparsi nel mondo, si è poi soffermato sulla situazione in Medio Oriente, sottolineando che «davanti alle violenze in strada, alla rabbia, alla paura occorre riprenderei negoziati». «È il momento giusto» ha ribadito evidenziando che a suo avviso «dovrebbero riprendere presto», se non a Parigi, forse a Vienna. «Non ci sono dubbi – ha affermato- che, senza la soluzione dei due Stati, non ci sarà pace». A destare preoccupazione è, in questo contesto, la condizione dei cristiani che «come anni fa è successo agli ebrei scappano» dalla Terra Santa. «Ho sentito dire che sarebbero fuggite circa 900mila persone», ha aggiunto Lauder per il quale «è interessante notare che invece è l’unico Paese in cui il numero dei cristiani sta crescendo». Quanto ai profughi in fuga da zone in guerra, il presidente del Wjc ha tenuto a precisare che «quelli che arrivano in Israele non vogliono restare, ma raggiungere l’Europa», mentre «l’Italia ha fatto un ottimo lavoro nell’accoglienza e nel permettere loro di raggiungere i Paesi del Nord, come ad esempio la Germania e la Svezia. «Noi ebrei – ha concluso – sappiamo bene quanto sia importante l’accoglienza dal momento che prima della seconda Guerra mondiale erno già molti i nostri fratelli che scappavano e molti i Paesi che avevano chiuso le Frontiere».
La Nostra aetate ha cambiato il modo di guardare all’altro
I leader religiosi presenti all’udienza con il Papa: insieme per la pace, il rispetto e la dignità umana
Uniti nella preghiera e nell’impegno a continuare sulla via del dialogo e della collaborazione, nonostante la diversità di fedi, culture e provenienze. E un silenzio carico di significato quello che ha avvolto piazza san Pietro dopo l’invito di papa Francesco a pregare «ognuno secondo la propria tradizione», a conclusione dell’udienza generale “interreligiosa”. Davanti alla Basilica vaticana, c’erano cattolici, ma anche induisti, buddisti, musulmani, ebrei e altri leader ed esponenti di varie religioni arrivati a Roma per partecipare al Convegno internazionale organizzato dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo in collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana, in occasione del 50 anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra aetate. Prima della catechesi, è stato il cardinale Kurt Koch, responsabile vaticano per la promozione dell’unità dei cristiani e i rapporti con l’ebraismo, a porgere il saluto a nome dei convegnisti al Papa: «ai giorni nostri, in un momento in cui risorgono purtroppo nuove ondate di antisemitismo, lei, Santo Padre, ricorda incessantemente a noi cristiani che è impossibile essere al contempo un cristiano ed un antisemita. Per questo la ringraziamo». «Grazie – ha detto anche il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del dicastero per il dialogo interreligioso – per i suoi instancabili inviti ad adoperarci per la pace eliminando le ingiustizie e le disuguaglianze, e a prenderci cura della nostra casa comune». «Noi appoggiamo le sue azioni e la sua saggezza: il mondo ha bisogno di una voce autorevole come quella di sua santità», ha sottolineato Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, che con alcuni rappresentanti delle altre religioni ha commentato l’incontro con il Papa nel corso di un briefing che si è tenuto nella Sala Stampa della Santa Sede al termine dell’udienza. «Oggi è un giorno storico», ha osservato Claudio Epelman, argentino, esponente del World Jewish Committee, che ha ricordato come il documento conciliare abbia «realmente cambiato le relazioni tra cattolici ed ebrei». Quel testo infatti rappresenta ancora oggi un invito «per noi ebrei e per i cristiani a lavorare insieme a livello universale per la pace, il rispetto e la dignità umana», ha aggiunto da parte sua il rabbino David Rosen, direttore internazionale per i rapporti interreligiosi dell’American Jewish Committee. Si tratta, ha scandito, «di una magnifica prospettiva». «Nostra aetate ha cambiato l’approccio nel guardare gli altri non come estranei o nemici, ma come fratelli», ha rilevato Rasoul Rasoulipour, musulmano iraniano che ha confidato di aver imparato molto dalla spiritualità francescana. «Lo scopo di ogni religione – ha ricordato – è la pace, ma essa richiede il perdono e l’umiltà, come san Francesco». Secondo Swami Chidananda Saraswati, rappresentante dell’induismo, la Dichiarazione conciliare «è molto ispirante anche per la spiritualità induista, soprattutto nel richiamo al rispetto della dignità umana e della natura». A 50 anni dalla sua pubblicazione, dunque, Nostra aetate non sembra aver perduto nulla della sua attualità, anzi continua ad incoraggiare iniziative di dialogo e di pace, come ha confermato il buddista Bellanwila Wimalaratna. Ma a dare una forte testimonianza in questa direzione è, secondo Samani Pratibha Pragya, giainista, proprio il Pontefice. «La preghiera e l’esempio del Papa – ha concluso l’esponente dei sikh, Brinder Singh Mahon – ci stanno davvero ispirando ad andare incontro agli altri: si può essere religiosi solo se si è interreligiosi».
Lo studioso. «Una svolta che è ormai irreversibile»
L’analisi dell’esperto di ebraismo Piero Stefani: lo Stato d’Israele, parte dell’identità del popolo dell’Alleanza
«È stata una svolta irreversibile». Piero Stefani si affida a un vocabolo e a un a_ettivo per delineare la portata storica della Dichiarazione conciliare Nostra aetate sul rapporto fra le Chiesa e le altre fedi. Fra i massimi esperti di ebraismo, docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e all’Università di Ferrara e presidente di “Biblia” (Associazione laica di cultura biblica), spiega i due termini. «È stata una svolta perché il testo non ha alcun precedente nei documenti ufficiali della Chiesa Lo dimostra, ad esempio, che in Nostra aetate non viene citato alcun passo del magistero precedente. Ed è irreversibile perché è diventata un autentico punto di riferimento In questo mezzo secolo non si può prescindere dal citarla quando si parla del dialogo con le altre religioni». La Dichiarazione- di cui ricorrono appunto i 50 anni – ha impresso come una sterzata ai rapporti con l’ebraismo. E ieri papa Francesco lo ha evidenziato. «Nostra aetate – ricorda Stefani – doveva riguardare all’inizio soltanto la relazione con il popolo ebraico, ma per ragioni di equilibrio e diplomazia si è allargata alle altre religioni. Nel paragrafo sull’ebraismo usa un’espressione teologicamente impegnativa il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. Ne va della definizione stessa di Chiesa». Del resto, aggiunge il docente, «le Chiese cristiane non sono mai riuscite a definire se stesse senza un confronto con il popolo d’Israele perché la loro fede nasce da lì, dalla vicenda del popolo eletto in cui è venuto alla luce il Signore». E lo studioso sottolinea come il documento abbia posto al centro «l’idea dell’Alleanza di Dio non revocata con Israele che oggi è un concetto indubitabile». La Dichiarazione condanna persecuzioni e antisemitismo. «È sicuro che, se non ci fosse stata la Shoà, le Chiese cristiane non avrebbero cambiato il loro atteggiamento verso l’ebraismo – sostiene Stefani -. Ciò significa che l’antigiudaismo cristiano era molto radicato. All’origine delle persecuzioni nei confronti degli ebrei c’è una visione parziale del popolo ebraico: è quella di “perfidi giudei , ossia di donne e uomini che non hanno fede. Così gli ebrei sono stati indicati attraverso una negazione e non richiamando la fedeltà all’Alleanza Tutto ciò non vuol dire che, per i cristiani, la salvezza universale non avvenga in Cristo. Lo ha ribadito anche Francesco». Un ostacolo al dialogo è la “teologia della sostituzione”. «Uno dei modelli storicamente prevalenti è stato quello di vedere nella Chiesa il nuovo popolo eletto o il vero Israele – afferma l’esperto -. Si è trattato di un atteggiamento che non solo ha prodotto frizioni col mondo ebraico, ma ha portato anche a un’immagine distorta di Chiesa». E poi c’è la questione”calda” dello Stato d’Israele. «Il tema del sionismo e della sua realizzazione nel concreto è connessa al fatto che il popolo ebraico va compreso come un popolo paragonabile a quello italiano o francese e non può essere considerato soltanto una comunità di fede. Quindi ha le sue manifestazione anche sul piano storico. Pertanto non possiamo prescindere dallo Stato d’Israele. Anche perché la maggior parte degli ebrei lo riconosce come parte della propria identità. Si possono criticare le scelte politiche, ma è cosa ben diversa negarne l’esistenza. Semmai il nodo scoperto è che i cattolici non hanno un’adeguata conoscenza della storia ebraica. E, quando si trovano di fronte all’attualità ebraica, non riescono a darle sufficiente spessore. Il risultato è che si oscilla fra il religioso e il politico senza mediarli con la dimensione storico-culturale».