Fonte:
Il Tempo
Autore:
Walter Cingoli
Antisemitismo, Di Segni: “Abbiamo paura, così nascondiamo in pubblico il nostro essere ebrei”
È allarme antisemitismo. Gli episodi si moltiplicano. A Roma un egiziano ha aggredito, nella centralissima via Nazionale, un minorenne ebreo che portava la kippah e camminava insieme a sua madre. È intervenuta una commerciante, e per fortuna oltre a un ceffone sulla testa e tanta paura non ci sono state conseguenze peggiori. Il gesto è in sé gravissimo, e non è così isolato: accaduto lo scorso 29 gennaio, è emerso solo ieri. Si denuncia poco. Si vive nel terrore che ai cani sciolti possano aggiungersi gruppi organizzati. E che l’emulazione arrivi dove non giunge la premeditazione: un gesto violento, quello dell’egiziano – riconosciuto grazie alle telecamere di sorveglianza stradale e arrestato ieri dalla Squadra mobile della Questura di Roma – che se non è il primo, rischia di non rimanere l’ultimo. Noemi Di Segni, la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, è allarmata.
«L’antisemitismo c’è, lo vediamo. C’è grande preoccupazione per un clima che per una goccia o per l’altra arriva sempre più spesso a situazioni fuori controllo. Non più solo a livello di minacce ma anche di incolumità fisica. Il timore di girare liberamente per strada avendo su di sé elementi riconoscibili è fortissimo».
Cosa comporta, per gli ebrei?
«Paura. Dobbiamo nasconderci. O meglio, nascondere in pubblico il nostro essere ebrei. Evitando il copricapo che portano gli uomini, la tradizionale kippah, per esempio. Questo nelle famiglie significa che ai ragazzi viene insegnato che per difendersi, per non avere problemi, non devono far capire di essere ebrei».
Ai ragazzi, per la Kippah. Scusi: vale anche per la Menorah, il candelabro a sette braccia, per la Stella di Davide, ornamento delle catenine e degli orecchini delle ragazze?
«Sì, vale per tutti i nostri simboli religiosi. Lo diciamo nelle scuole ebraiche, nelle comunità: stiamo sconsigliando di mostrare qualsiasi simbolo possa far capire che si tratta di ebrei.
Per girare in sicurezza, per andare in strada, per prendere gli autobus dobbiamo sforzarci di non far capire che siamo ebrei».
A Roma, a Milano, in Italia… nel 2025?
«Viviamo in un Paese dove la libertà di culto è statuita e garantita dalla Costituzione alla pari di tutte le altre libertà, di parola, di stampa, di rappresentazione del pensiero. Però nei fatti non è così, perché le occhiatacce, gli insulti, le minacce e sempre più spesso i gesti violenti sconsigliano gli ebrei dal mostrarsi tali. Sì, nel 2025, nella nostra Italia».
È gravissimo, inaccettabile. Ci sono zone, momenti, livelli di attenzione crescenti?
«Ormai in tutte le ore del giorno e della notte e in qualsiasi zona delle grandi città è consigliato agli ebrei di nascondere la loro identità, di evitare qualunque segno di appartenenza che possa ingenerare violenza. Una ferita aperta per il concetto stesso di convivenza civile, direi un problema culturale per tutti e non solo una menomazione della libertà per gli ebrei».
Ci sono problemi anche per i turisti israeliani?
«Di quel caso in Veneto, dove i turisti israeliani sono stati rifiutati in un hotel, si è parlato. Gli episodi quotidiani sono meno evidenti, meno rumorosi: alla parola Israele segue spesso un qualche secondo di silenzio imbarazzato, occhiate, battute. Tutte cose che gli intereressati percepiscono e ricordano nel tempo, anche se in apparenza non accade niente di grave».
Avete rafforzato la vigilanza intorno alle scuole e alle istituzioni ebraiche?
«Sì, e già da un po’. Ma di questo preferirei non parlare. Approfitto della sua domanda per rivolgere un ringraziamento alle forze dell’ordine che ci sono sempre, con grande professionalità e ci danno sicurezza, anche se nessuno vorrebbe vivere blindato, guardato a vista».
Sono state assegnate nuove scorte?
«Anche qui, non vorrei parlarne. Diciamo che è già abbastanza eloquente che una donna anziana come Liliana Segre, una delle ultime sopravvissute alla Shoah, ad Auschwitz, oggi non possa uscire di casa senza essere scortata. Già questo deve farci riflettere sul mondo in cui stiamo vivendo».
Cosa si può fare?
«La politica, i media, le informazioni sui social hanno una grande responsabilità e oggi sono corresponsabili di una campagna di denigrazione che fomenta una rabbia immotivata e cieca che colpisce, come è successo a Roma l’altro giorno, un ragazzo innocente che passeggia con sua madre».