Fonte:
IlSole24Ore
Autore:
Piero Craveri
Cecchi antisemita? Non risulta
Più volte da queste colonne si è intervenuti per fare chiarezza sulla lettura distorta di documenti da cui era stata dedotta una compromissione col fascismo, ad esempio, da parte di Ignazio Silone e Massimo Salvadori, uomini che avevano votato la loro vita a combatterlo strenuamente. Così pure per fugare le ombre che vennero addossate a Adolfo Omodeo, Federico Chabod, Mario Pannunzio. Per questi ultimi l’impegno politico si manifestò con la guerra. Colti negli anni della loro giovinezza dall’avvento del regime fascista, avevano dovuto convivere con esso, chi come professore universitario e chi come pubblicista. Non c’è tuttavia un solo loro atto, tanto meno uno scritto, che testimoni di una loro partecipe adesione, ma piuttosto mostra il contrario. È un tiro al piccione che si ripete, senza una veruna sostanziale prova, salvo quella data dal contesto in cui vissero in quel ventennio, che obbligava a tacere ed a subirne le conseguenze.
Ora è la volta di Emilio Cecchi. L’accusa è quella di antisemitismo, assai più grave di quella di fascismo. Marco Pischedda, nel suo Idioma molesto, frantuma i ragionamenti critici di Cecchi senza trovare mai un riferimento testuale pertinente. La sua tesi è che la prosa di Cecchi su questo tema mostra una tecnica insinuante e criptica per diffondere le sue convinzioni antisemite. Come è noto la sua scrittura è un esempio paradigmatico di limpidità nell’uso della lingua italiana. Certo si adoperavano allora parole sensibili, come “razza”, oggi pressoché bandite, ma che tuttavia Cecchi non dà prova di usare con intento denigratorio e razzista.
Pischedda poi ricostruisce la biografia di Cecchi in modo impreciso. Lo dice cattolico, per collegarlo a quella che è stata una radice storica dell’antisemitismo, mentre era invece integralmente laico. Si sorvola sul significato della sua adesione al manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce, oltre alla circostanza che sua moglie, Leonetta Pieraccini, era fervente antifascista, di una famiglia socialista, i cui membri conobbero il confino e parteciparono attivamente alla lotta contro il regime. Si presume che prese a fiancheggiare il fascismo, sulla base di una lettera a Bottai, che lui stesso ha inserito nei suoi Taccuini, in cui chiedeva la rintegrazione nel sindacato dei giornalisti, senza fare alcuna professione di fede, per poter continuare la sua attività pubblicistica. Abbiamo testimonianza che Mussolini diffidava di lui con la considerazione, nel suo crudo realismo, d’essere egli un intellettuale a cui il fascismo non aveva mai dato nulla. Per interessamento di Pirandello fu fatto membro dell’Accademia d’Italia, altro capo di accusa, ma va considerato che nel 1947 veniva chiamato a far parte di quella rinnovata dei Lincei, tra i pochi della passata istituzione.
Il libro di Pischedda non è di facile lettura. Pare anche che chi (sul «Corriere», ndr) ne ha fatto recensione favorevole lo abbia solo sfogliato alla ricerca di qualche improbabile spunto. Come l’accusa a Cecchi di aver sostituito, nell’antologia Americana, edita da Bompiani nel 1940, la sua prefazione a quella di Vittorini, colpita dalla censura fascista. Fu ripubblicata, dopo la guerra, con le due prefazioni e fu Vittorini stesso a chiarire che per la precedente edizione, sia lui, sia l’editore si erano rivolti a Cecchi per poter comunque pubblicare l’opera. Ci sono libri che, per recensirli, è meglio conoscere bene l’argomento, se non si vuole incorrere in banali errori.
Bruno Pischedda, L’idioma molesto ,
Nino Aragno editore, Torino,
pagg. 314, € 20