Fonte:
MOW
Autore:
Giulia Sorrentino
Lo spot Esselunga non bastava. Proprio ieri la nuova pagina di informazione “Dillinger” ha parlato dell’ultima pubblicità realizzata da “Ace”, in cui si presenta un prodotto chiamato “FORMULA ANTI-ODIO”. Nel video realizzato dall’azienda e diffuso a metà settembre si vedono un ragazzo e una ragazza che cancellano una scritta contro gli ebrei. Ma è mai possibile usare un popolo come quello ebraico, che ha subìto l’Olocausto, come veicolo per vendere qualche prodotto in più? È possibile che il marketing non si fermi davanti a nulla? Oltre alla questione delle vendite quello che ha voluto fare “Ace” è stato un mal riuscito tentativo di posizionamento, che fa leva sulla sensibilità di chi a primo impatto e senza pensarci su, sia portato a dire “bravi”, “grazie”, “evoluzione”, come si legge tra i commenti. Abbiamo chiesto a Salomone (detto Moni) Ovadia, noto attore cantante e scrittore di origine bulgara che cosa ne pensi, se non si senta offeso da ciò che ha visto, se l’azienda non debba scusarsi, ma per lui è “bieca strumentalizzazione” e “lo scopo è quello di aumentare il fatturato e acchiappare like”.
Quale è stata la prima cosa che ha pensato non appena ha visto lo spot pubblicitario di “Ace”?
Il mio primo pensiero è stato che la pubblicità e che quindi le logiche del mercato non si pongono limiti, cercano di sfruttare qualsiasi emozione, strumentalizzano qualsiasi sensibilità con l’unico scopo di vendere il prodotto. Siamo arrivati al punto di vivere in una società in cui è stato reso lecito fare qualsiasi cosa, se questo operato porta all’aumento di vendite e di consumi. Abbiamo visto già di recente la pubblicità dell’Esselunga, che prende ed esporta sentimenti ed emozioni che fanno parte della vita e le strumentalizza, che fa delle emozioni uno strumento e non più una realtà propria della vita umana. Il loro unico scopo è quello di incrementare le vendite.
Quella dell’Esselunga la potremmo però considerare una moderna risposta a quello che era il modello proposto dal Mulino Bianco.
Sì sì certo. Il problema credo che consista nel fatto che non c’è un confine per cui si decide di evitare temi come le famiglie che si separano e i drammi reali che la gente ha. Quel dramma reale viene svuotato dell’aspetto drammatico per essere sostituito da una costruzione che prende la scorza di quella cosa per portarlo poi nel meccanismo della pubblicità. Lei ha citato giustamente anche la famosa pubblicità del Mulino Bianco, in cui veniva rappresentata la famiglia felice. Certo, le famiglie hanno momenti di felicità, ma quel momento di felicità viene isolato e confezionato al fine degli interessi della pubblicità. Per cui le stesse cose reali perdono valore, vengono virtualizzate con un’operazione di isolamento di elementi per portarli al pubblico con un unico scopo.
Verso la fine dello spot si intravede anche la parola “gay”. Lei pensa che sia stato giusto accostare le due realtà?
L’antisemitismo è stato un sentimento specifico enormemente smisurato dei Nazisti, però anche i gay sono stati rinchiusi nei campi di concentramento e un certo numero di loro è stato assassinato, perché per i nazisti anche i gay andavano eliminati in quanto corrompevano la razza. Questo è successo anche ai testimoni di Geova o ai rom, che qui però non vengono nominati. I nazisti hanno assassinato nei lager undici milioni di persone, di cui almeno sei milioni sono stati gli ebrei, ma ci sono altre categorie umane che sono state sottoposte alla persecuzione e allo sterminio nazista, non sono solo gli ebrei. Ma mettendo tutto insieme si fa un pastone per dire “questo detersivo cancella le discriminazioni”, quindi non importa più distinguere tre ebrei, gay, rom? Nella pubblicità non c’è nessuna cautela e nessuna autentica sensibilità, è solo un processo di strumentalizzazione volto a ottenere un effetto di stupore di fronte alle parole ebreo e gay. Lo scopo è quello di acchiappare like, impressionare anche a livello subliminale le persone che poi, quando vedono il prodotto, magari anche senza pensarci, acquistano il prodotto.
Sotto il post fatto dall’azienda c’è un commento che parla di evoluzione. Si rivede in questa definizione?
No, io parlerei di banalizzazione, perché tutto si riduce a uno straccio e una sostanza che levano via delle scritte, senza dimenticare che la stessa cosa può essere usata per cancellare una scritta che denunci la tirannia.
Lei pensa che l’azienda debba chiedere scusa?
A mio parere il problema non è tanto che si debba chiedere scusa, perché si tratta di qualcosa di più profondo. Bisogna chiedersi quali sono le priorità, perché quando la priorità è quella di vendere allora non ci sono più limiti. Non so se l’azienda chiederà scusa o ci saranno le proteste delle comunità ebraiche, il problema è che questa è una società che non ha rispetto di fronte a quella che è l’unica priorità, ovvero quella di incrementare le proprie vendite. In questo caso non ci si pongono più problemi di priorità. Il pubblicitario usa qualsiasi cosa che possa servire all’incremento dei profitti, perché ci sono elementi nella nostra società che non si pongono più limiti. Chi ha fatto questa cosa non si è posto la domanda “potrei urtare la sensibilità di gente che ha avuto famiglie sterminate?”. Se chiederanno scusa lo faranno questa volta, ma poi torneranno all’attacco un’altra volta.