Fonte:
Corriere della Sera - Sette
Autore:
Diego Gabutti
II Gran Muftì alleato di Hitler nell’olocausto nazista
Amin al-Husseini, leader musulmano antesignano della jihad islamica, teorizzò lo sterminio degli ebrei. Dando la caccia persino ai bambini
Quando capita d’evocare la sinistra figura di Amin al-Husseini, fondamentalista nazi-islamico e Gran Muftì di Gerusalemme tra le due guerre, c’è sempre qualcuno che nega con sdegno politically correct una sua diretta o anche solo convinta partecipazione all’Olocausto. Si nega, soprattutto, che il Gran Muftì — braccato dagl’inglesi, ospite di Mussolini a Roma, poi di Hitler a Berlino — abbia mai premuto sui nazisti incitandoli a uccidere senza pietà tutti i «giudei» e «sionisti» d’Europa allo scopo di precludere loro ogni via di fuga e tenerli lontani dalla Palestina. C’era dentro, invece, e fino al collo, come racconta nel suo ultimo libro Mirella Serri. Bambini in fuga è la storia bella e terribile d’un gruppo di bambini e adolescenti ebrei alla macchia in territorio nemico. Sono accuditi da un ragazzo di poco più anziano, Josef Indig, membro delle associazioni sioniste giovanili. Tedeschi e polacchi, austriaci e jugoslavi, sono tutti orfani. Molti hanno visto i genitori e i fratelli morire nei rastrellamenti, uccisi per Vertice á morte L’incontro tra Amin al-Husseini e Hitler il 28 novembre 1941 a Berlino. A sinistra un gruppo di ragazzi a Villa Emma (Nonantola, Modena) che dal ’42 ospitò una settantina di giovani ebrei provenienti dall’Est europeo, sottraendoli alle persecuzioni nazifasciste. strada a calci e pugni, abbattuti col calcio dei fucili, falciati da raffiche di mitra. Per anni si muovono sotto il fuoco nemico, clandestini e invisibili, nel labirinto dei visti d’ingresso e dei permessi di transito, ogni tanto qualche notizia dai parenti finiti nei campi nazisti, un pacco-viveri, un rifugio temporaneo, un incontro inatteso, uno sguardo d’odio, più raramente un sorriso. Affamati e terrorizzati, mai un momento di quiete, viaggiano attraverso la Germania genocida, poi nella Croazia degli ustascia e dei partigiani titini, quindi nell’Italia delle leggi razziali (dove per un po’ trovano scampo, tra italiani brava gente) e infine in Svizzera e in Francia. Su di loro, come il ghigno dello scienziato pazzo nei manifesti dei film espressionisti, non incombono soltanto le ombre di Hitler, Eichmann e Himmler, ma anche l’ombra di al-Hussein, cacciatore d’ebrei, grande assassino.
I prodromi di Fatah e Olp. Quella dei bambini in fuga, nel racconto di Mirella Serri, è inevitabilmente anche la storia del Gran Mufti di Gerusalemme, uno dei più appassionati tifosi del genocidio. È possibile che persino qualche alleato di Hitler abbia distolto lo sguardo dall’Olocausto, non sopportandone la vista. Amin al-Husseini no; lui non fece che invocare la soluzione finale. Anni prima, aveva fatto tradurre in arabo i Protocolli dei Savi di Sion. Voleva sempre più cadaveri, e sempre meno emigrati ebrei in Palestina. Nel luglio del 1944 «scrisse a Jacob von Ribbentrop», ministro degli esteri della Germania hitleriana, «per lamentarsi di scambi d’ebrei e di militari tedeschi prigionieri che si erano verificati circa una ventina di giorni prima. Sottolineò che non bisognava dimenticare che il Reich s’era impegnato a combattere l’ebraismo mondiale. Ancora due giorni dopo si lamentava con Himmler che vi erano stati nuovi scambi e che questo permissivismo avrebbe “incoraggiato anche i Paesi balcanici a inviare i loro ebrei in Palestina”». Dieter Wisliceny, il vice di Eichmann poi giustiziato per crimini di guerra, confidò nel giugno del 1944 al leader ebreo ungherese Rudolf Kastner che al-Husseini «aveva avuto un ruolo nella decisione di sterminare gli ebrei d’Europa e che era stato collaboratore e consigliere di Eichmann e di Himmler nell’esecuzione di questo piano». Promotore d’attacchi suicidi contro gl’inglesi, creatore della divisione musulmana Handschar (o «scimitarra») delle Waffen-SS, zio (o cugino, non è chiaro) del leader di al-Fatah e dell’Olp Yasser Arafat, il Gran Mufti praticò la jihad ben prima dell’Isis e di al Qaeda. Ennesimo orco della favola novecentesca, che conta più cannibali di qualunque altro secolo, Amin al-Hussein fu anche e soprattutto uno spietato persecutore di piccoli «giudei» perché «i bambini» — come dicevano gli ufficiali nazisti citati da Mirella Serri — «crescono e diventano schifosi ebrei». Ospitati per un anno a Villa Emma, «una costruzione situata alla periferia di Nonantola, in provincia di Modena», i bambini ebrei in fuga furono assistiti dalla popolazione locale, dai contadini, dal sacerdote don Arrigo Beccari, dal medico Giuseppe Moreali. Anche prima, in Jugoslavia, le autorità italiane li avevano protetti dalle leggi antropofaghe naziste. Ma Villa Emma, prima di Salò e della nazificazione definitiva del fascismo, fu il paradiso, quasi un assaggio di Eretz Yisrael, patria perduta e ritrovata. Fu la stessa popolazione di Nonantola, insieme alle organizzazioni sioniste clandestine che curavano l’espatrio degli ebrei, a favorire la penultima tappa della loro fuga attraverso l’Europa. Passando da Stresa, entrarono in Sviscera, poi la guerra finì, i loro nemici furono sconfitti e finalmente i bambini in fuga entrarono nella Terra promessa
Stragismo islamico. Anche il Gran Mufti di Gerusalemme sopravvisse alla guerra. Fuggì in Francia, poi in Egitto, dove fu accolto col presentat’arm dai Fratelli musulmani, tuttora campioni d’islamismo radicale e antiebraico. Benché se la fosse ampiamente meritata, per Amin al-Hussein non ci fu una Norimberga. Un po’ tutti, anzi, dai russi agli americani e agl’inglesi (Churchill escluso) se lo tennero buono per arruffianarsi la nazione araba. Fu tutto dimenticato: la divisione Handschar delle Waffen-SS, le proteste per gli scambi di prigionieri tedeschi con ebrei destinati alle camere a gas, la traduzione in lingua araba del Protocolli dei Savi di Sion. Tranne che in Israele, non s’accennò più al fatto che il Gran Mufti, nei primi anni di guerra, aveva chiesto a Hitler di prestargli Eichmann, a guerra finita e vinta dall’Asse, per esportare la soluzione finale nei Luoghi Santi, tra gli ebrei già emigrati. Al-Husseini morì nel 1974. Due anni prima, nel 1972, Ali Hasan Salameh — capo di Settembre Nero, uno dei bracci militari di al-Fatah, e figlio di Shaykh Hassan Salameh, fidato luogotenente del Gran Muftì — aveva organizzato e diretto l’assalto dei terroristi palestinesi al villaggio olimpico di Monaco di Baviera. Undici atleti ebrei vennero uccisi dai feddayn: fu un’altra caccia, come quella voluta del padre con i bambini ebrei.