Fonte:
www.mosaico-cem.it
Autore:
Davide Servi
“Israele boia”, “Free Palestine” e poi Hava Nagila: i Patagarri all’Alcatraz infiammano il pubblico, ma qualcosa non torna
I Patagarri infiammano l’Alcatraz con slogan contro Israele, cavalcando lo zeitgeist del momento, ma scivolano in gravi inesattezze storiche. Bisogna ripartire dalla storia.
Mercoledì 26 marzo, per la seconda sera consecutiva, i Patagarri – quintetto jazz italiano noto per il suo stile “swing and swag” e secondi classificati a X Factor 2024 – hanno riempito l’Alcatraz di Milano con un sold out. Oltre duemila fan hanno affollato il locale per assistere a uno show coinvolgente, tra musica, aneddoti e battute fra i brani. La band replicherà stasera con una terza data.
Come spesso accade nei concerti, la musica si è intrecciata alla politica. E se è vero che l’intersezione tra musica e attivismo è un fenomeno storico frequente e – in molti casi – onorabile, è altrettanto vero che chi prende la parola su un palco ha la responsabilità di farlo con consapevolezza. D’altronde, tutto è politica, e quando il mondo si contorce sfruttando la distrazione delle masse, è imperativo ricordare alle masse che la politica riguarda proprio loro.
Ma ogni dichiarazione pubblica – soprattutto se portata su un palco davanti a migliaia di persone – dovrebbe partire da una domanda essenziale di onestà intellettuale: che obiettivo ho? Voglio promuovere consapevolezza? Giustizia? Pace? O rischio di incitare all’odio e alla divisione?
Il problema è che questa domanda, troppo spesso, non se la pone nessuno. E così l’impegno politico in favore della causa palestinese, strumentalizzato senza rigore e profondità, si trasforma in una versione intellettualoide e occidentalizzata dell’intifada, che finisce per assumere tratti inquietanti di antisemitismo non troppo distanti dalle ombre del Novecento.
Nel corso del loro spettacolo, i Patagarri si sarebbero lasciati andare – secondo una testimone diretta (non abbiamo potuto verificare direttamente) – a una breve, discutibile riscrittura della storia, sostenendo che la presenza ebraica in Israele sarebbe il risultato di una decisione presa da un manipolo di britannici, che avrebbero permesso agli ebrei di occupare la Palestina.
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Poco dopo, hanno incitato il pubblico a unirsi in coro al grido di “Israele boia, Palestina libera, free Palestine”, per poi chiudere con una performance sfacciata di Hava Nagila: un brano ebraico profondamente identitario, composto nel 1918 a Gerusalemme da Abraham Zvi Idelsohn su una melodia chassidica, per celebrare proprio la Dichiarazione Balfour del 1917, con cui il governo britannico si impegnava a sostenere la creazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina.
Hava Nagila, che significa “rallegriamoci”, è molto più di una canzone: è un inno simbolico alla resilienza, alla speranza e alla gioia collettiva del popolo ebraico. Suonarla subito dopo aver intonato “Israele boia” è sicuramente una scelta coraggiosa, ma non per questo encomiabile.
Non è accettabile riscrivere, con superficialità e inesattezze, la storia della presenza ebraica in quella regione. La presenza ebraica infatti in Medio Oriente è antichissima e mai del tutto interrotta. Fino al 586 a.E.V., la terra era divisa nei regni di Israele e di Giuda, documentati da fonti archeologiche come la Stele di Mesha e l’Obelisco Nero di Salmanassar III. Poi i babilonesi distrussero il Primo Tempio, e cinquant’anni dopo Ciro il Grande permise agli ebrei di rientrare e ricostruirlo.
Per secoli, gli ebrei vissero in Giudea con autonomia, fino alla conquista romana. Nel 135, dopo numerose rivolte ebraiche, l’imperatore Adriano cambiò il nome della provincia in Syria Palaestina, scegliendo un termine che evocava i nemici biblici degli ebrei (i Filistei) per cancellarne l’identità storica. Questa cancellazione culturale, purtroppo, sembra aver avuto successo: oggi molte piazze che si dicono solidali con la Palestina ignorano questi fatti storici.
Nei secoli successivi, la regione fu contesa da bizantini, arabi musulmani, crociati, califfati e mamelucchi, fino agli ottomani, cristianizzata e islamizzata a seconda dell’occupante, ma la presenza ebraica non venne mai del tutto cancellata.
Nonostante l’ormai lunga e consolidata presenza araba nella regione, l’identità nazionale palestinese distinta da quella ebraica è di invenzione recente. All’inizio del Novecento, durante il dominio ottomano, i primi intellettuali cristiani arabi – come Khalil Beidas, Najib Nassa e Khalil Sakakini – iniziarono a delineare un nazionalismo arabo-palestinese attraverso appelli violenti contro gli ebrei. Sakakini invitava gli arabi a tendere imboscate agli ebrei, bombardare e sparare agli ebrei, bruciare campi, terreni e aranceti ebraici, far deragliare i treni, e tagliare le linee elettriche. Appoggiò anche la Germania nazista, scrivendo che Hitler aveva “aperto gli occhi del mondo” e rimesso gli ebrei “al loro posto”, e sperava che i nazisti avrebbero “liberato la Palestina dall’ebreo”.
Il sionismo, gli inglesi, e Israele
Forse i Patagarri dimenticano – o ignorano – che il desiderio di ritorno in Israele è parte integrante della preghiera e dell’identità ebraica dai tempi della prima diaspora. Forse non sanno che la prima ondata migratoria moderna iniziò nel 1882, ben prima dell’arrivo dei britannici, spinta dai pogrom antiebraici in Russia. Gli ebrei acquistarono legalmente, in cambio di denaro, terre paludose e aride da latifondisti arabi assenti (spesso ricchi siriani o libanesi) nelle regioni allora appartenenti all’Impero Ottomano. Le bonificarono a caro prezzo e con immenso lavoro.
Nel 1896, Theodor Herzl – considerato il padre del sionismo moderno – pubblicò Lo Stato Ebraico, prima dell’arrivo dei britannici. L’anno seguente, nel 1897, si tenne il Primo Congresso Sionista. La seconda ondata migratoria iniziò nel 1904: sì, prima dei britannici. Nacquero i primi kibbutzim e moshavim, dove gli ebrei lavoravano le terre acquistate. Questo processo, pur avvenuto su base legale, generò tensioni con i contadini arabi locali, rendendo necessaria la formazione di gruppi di autodifesa per proteggersi dagli attacchi dei vicini.
Nel 1920, il Mandato britannico riattivò ufficialmente il nome Palestina.
Dopo la Shoah, nel 1947, le Nazioni Unite proposero la creazione di due Stati – uno ebraico e uno arabo – riconoscendo il diritto all’autodeterminazione di entrambi i popoli. Gli ebrei accettarono. Gli arabi no. Il giorno successivo alla proclamazione dello Stato di Israele, sei Paesi arabi – Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq – attaccarono con l’esplicito obiettivo di annientarlo, ma persero la guerra.
Dal 1948 al 1967, l’Egitto occupò la Striscia di Gaza, amministrandola militarmente senza mai concedere la cittadinanza egiziana né l’indipendenza palestinese agli abitanti. Non solo: sostenne infiltrazioni armate (fedayyin) dirette contro Israele. Nello stesso periodo, la Legione Araba giordana conquistò Gerusalemme Est e gran parte della Cisgiordania, annettendole formalmente nel 1950, e senza mai istituire uno Stato palestinese indipendente.
Nel 1967, a seguito della Guerra dei Sei Giorni, Israele conquistò quei territori, e negli anni ’90, con gli Accordi di Oslo, cominciò a cedere parzialmente il controllo della Cisgiordania all’Autorità Nazionale Palestinese, mentre nel 2005, si ritirò completamente da Gaza e concesse libere elezioni, in cui vinse Hamas.
Criticare il governo d’Israele è antisemitismo?
Come già ribadito su queste pagine, criticare il governo israeliano è assolutamente legittimo (lo fanno tutte le settimane da due anni gli stessi israeliani). Tuttavia, la solidarietà verso un popolo non può e non deve passare per la negazione del diritto all’autodeterminazione dell’altro. Né può tradursi in una distorsione dei fatti storici, piegati alla mercé di una propaganda antiebraica tanto urlata quanto miope.
Gli artisti impegnati che si cimentano in divulgazione politica, arringhe e sermoni su palchi affollati, si assumono anche la responsabilità di approfondire ciò che raccontano. Studiare la storia sarà forse un metodo antico – soprattutto nell’era di TikTok – ma resta uno degli strumenti più validi che abbiamo per parlare con cognizione di causa.
* Nota
Le affermazioni riportate in questo articolo si basano su dichiarazioni pubbliche pronunciate dai membri della band Patagarri durante il concerto del 26 marzo 2025 all’Alcatraz di Milano, registrate e documentate da fonti presenti sul posto. L’intento di questa analisi è di esercitare il diritto di cronaca e critica su un fatto di rilevanza pubblica, nel rispetto della verità sostanziale dei fatti e con linguaggio civile e non diffamatorio. I riferimenti storici contenuti nell’articolo sono frutto di documentazione basata su fonti accademiche e archivistiche.