Fonte:
www.huffingtonpost.it
Autore:
Adele Sarno
Giochiamo alla Shoah?
L’ultimo inimmaginabile trend su TikTok: imitare i deportati ebrei nei lager. Anna Foa: “Non è ignoranza ma mancanza di uno sguardo etico”. Betti Guetta: “I giovani per colpire e attirare l’attenzione su di sé fanno cose sempre più dissacranti. Alzano sempre più il livello di provocazione”
Le occhiaie, il volto graffiato dal dolore, la magrezza. Un pigiama a righe, una stella di David sul petto. Il set è pronto, trucco e parrucco fatto. Lo smartphone inquadra e parte il video: “Un giorno portarono me e la mia famiglia in un posto strano. Iniziarono a darci delle divise. Eravamo costretti a lavorare e ci davano poco cibo. Un giorno ci constrinsero ad entrare in una doccia e…”. L’ultimo trend dei video di TokTok lascia senza parole. Migliaia di adolescenti di tutto il mondo fingono di essere vittime della Shoah e registrano video brevi, di poche decine di secondi, in cui raccontano una storia dal punto di vista della vittima. Basta scorrere il social per capire che il fenomeno è tutt’altro che marginale: l’hashtag #holocaust conta oggi 18.2M visualizzazioni, la pagina italiana #olocausto circa 100mila, #shoah 780mila. I video hanno iniziato a popolare il socialnetwork dalla fine di agosto. La moda è quella del #POV ovvero del Point Of View, in cui chi guarda è come lo spettatore di una performance. La tendenza è diventata una gara: tanto che Tiktok ha disattivato l’hashtag #HolocaustChallenge. E dichiara di aderire al Codice di Condotta della Commissione Europea contro l’incitamento all’odio online.
Vale la pena ricordare che TikTok è il socialnetwork della Generazione Z, quelli nati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2010. I nativi digitali, cresciuti con internet e i social network. Ma perché la prima generazione sempre connessa a Internet sceglie questa strada per parlare delle vittime dell’Olocausto? Betti Guetta dell’Osservatorio Antisemitismo del CDEC, insieme a Murilo Henrique Cambruzzi, studia da anni il fenomeno dell’hate speech online, e a questa tendenza dei video di 15 secondi dai campi di sterminio ha dedicato un articolo pubblicato su Joimag. Per questo le abbiamo chiesto cosa ne pensa. “Ho guardato moltissimi video che ridicolizzano l’Olocausto. Stupisce che molti di questi ragazzi siano giovanissimi. Usano la propria creatività per mettersi in vetrina ed esibire la tragedia umana. Gli psicanalisti concordano: ormai i giovani per colpire e attirare l’attenzione su di sé fanno cose sempre più dissacranti. La linguaccia o il seno che si vedono fanno parte del già visto. E allora? Alzano il livello di provocazione. Basti pensare che abbiamo perfino trovato dei video in cui c’era chi fingeva di essere stato violentato in un campo di concentramento”. Per capire ancora meglio di cosa parliamo basta guardare questo Thread di Twitter:
“Sono molto motivata e affascinata dall’Olocausto e dalla storia della seconda guerra mondiale”, dice una delle protagoniste dei video. “Ho degli parenti che erano nei campi di concentramento e in realtà ho incontrato alcuni sopravvissuti del campo di Auschwitz. Volevo diffondere la consapevolezza e condividere con tutti la realtà dietro i campi condividendo la storia di mia nonna ebrea”. Buone intenzioni a parte, è impossibile che brevi clip di TikTok possano dare spazio alla complessità di tali questioni e onorare adeguatamente le vittime. È come se ci fosse un gusto macabro della tragedia. La dottoranda Chloé Meley, in un articolo su Incite Journal, parla di “Trauma porn”, dice Betti Guetta. Lo definisce come “il fascino perverso per la sfortuna di altre persone; un fenomeno che è diventato pervasivo in un’era digitale in cui il dolore è mercificato e le rappresentazioni sconvolgenti di esso private del loro impatto emotivo”. È come se ci trovassimo in una società desensibilizzata alle storie tragiche. Ma che allo stesso tempo si nutre di tragedia come se fosse l’ultima avvincente serie Netflix.
“Lo trovo aberrante, è una di quelle cosa che non avrei immaginato potessero accadere. Non so a cosa si possa ricondurre. Non si tratta di ignoranza, incapacità di capire, di condannare, quanto piuttosto incapacità di avere uno sguardo etico”. Anna Foa è una storica, ha scritto “Portico d’Ottavia 13″ per Laterza. Specialista di storia della cultura, storia della mentalità e storia ebraica. “C’è qualcosa di più”, dice ad Huffpost. “C’è come una volontà di buttarsi nel male e di sperimentarlo. Vedo un disperato bisogno di portare la violenza su di sé. Che non rivela soltanto l’incapacità di capire cosa è stato, perché allora basterebbe spiegare, studiare, insegnare. Qui siamo di fronte a qualcosa che rivela una forma di malattia mentale collettiva”.
Siamo quindi di fronte a una forma folle di commemorazione di una vittima dei campi. Una forma di offesa inusuale rispetto al passato. ″La Shoah o si negava o si offendeva, qui siamo di fronte a una immedesimazione per gioco che in realtà prescinde dal vero. È il gioco delle vittime, il gioco dei morti che parlano. Che a me sembra l’opposto della memoria”. Qualcuno potrebbe obiettare che descrivere la sofferenza di qualcuno può essere un modo efficace per diffondere la consapevolezza. “Non è un modo per capire quello che è successo. Bisognerebbe studiare la resilienza, studiare Primo Levi che recita Ulisse, ascoltare la Segre, rileggere le cose che sono state scritte. Ciò che è successo deve essere usato da noi per guardare oltre, per aprirci al mondo per evitare che certe cose non accadano più”. A poco serve travestirsi da ebreo, provare il trucco più adatto, e immedesimarsi nella magrezza o nella tristezza. “Dire sono una donna morta in un campo di concentramento è come dire: ‘Sono morta’. Non è solo un insulto è un modo di morire davvero. Forse stiamo allevando una generazione di malati di mente”.
Ci troviamo di fronte a migliaia di ragazzi che hanno la pretesa di produrre contenuti educativi in grado di sensibilizzare la gente sull’Olocausto e che invece riescono soltanto a offendere la memoria di milioni di ebrei sterminati durante la Seconda Guerra mondiale. E giocano a fare i registi della Shoah. Essere nativi digitali non significa necessariamente essere alfabetizzati digitali. Servirebbe per questo maggiore attenzione non solo da parte dei genitori ma anche dagli stessi social network. Censurare l’hashtag #HolocaustChallenge è una forma di ipocrisia perché TikTok è una immensa Challenge. Censurare a valle non è mai una soluzione, qualche regola bisognerebbe metterla a monte. I casi Facebook-Twitter-Trump lo insegnano. Ma finché i social continueranno a essere gli arbitri della partita che giocano queste challenge sono destinate a durare. Oggi tocca alle vittime dei campi di concentramento, ieri toccava alle donne vittime di violenza e domani toccherà ai morti di Covid (qualche video in realtà c’è già).