10 Febbraio 2014

Manifestazioni antisemitiche a Roma tra Cinquecento e Settecento

Fonte:

Shalom

Autore:

Marina Caffiero

Ebrei come maiali: un paragone antico

In una curiosa forma di rovesciamento l’animale proibito veniva identificato dai cristiani con gli ebrei stessi e in particolare con i rabbini

I recenti disgustosi eventi che hanno colpito la comunità romana con l’invio delle tre teste di maiale ad altrettanti luoghi istituzionali non sono stati forse capiti e spiegati nella loro intera portata che è di inaudita gravità. La stampa e i commentatori, pur dando ampio spazio alla notizia, hanno parlato di avviso mafioso o di offesa alle tradizioni alimentari degli ebrei o, peggio, di goliardata fatta da persone ignoranti e sprovvedute. Ma per gli storici che hanno studiato le vicende del passato queste interpretazioni non possono che essere considerate come riduzioniste e pericolosamente minimaliste. Perché si tratta di ben altro e di molto di più: queste sono espressioni di razzismo molto pericolose per il linguaggio simbolico sotteso. E bisogna conoscerle ed esserne consapevoli. Leggendo i resoconti dei giornali sembra di piombare nei documenti del Sei-Settecento che ho analizzato nel mio libro Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia,libri proibiti e stregoneria e in cui sono descritte le teste di maiale e le figure di ebrei/ maiali portate in giro sui carri dalla plebaglia romana per segnalare una precisa identità non umana degli ebrei. Vale la pena di raccontare questa storia.

A Roma, tra Cinque e Settecento il periodo di Carnevale rappresentava un periodo di esplosione dell’ostilità antiebraica e dunque una fase temibile. Oltre alla più nota corsa o pallio, descritta con disgusto anche da Montaigne che vi aveva assistito nel 1580, nel corso della quale gli ebrei correvano nudi lungo l’attuale via del Corso, esistevano altre espressioni popolari dell’avversione antiebraica esplicitata in quei giorni. Sono espressioni “dal basso” che vale la pena di ricordare perché sono in grado di esplicitare i volti dell’ostilità e della paura nelle relazioni con gli ebrei e la loro durata nel corso dei secoli. La corporazione cristiana dei pescivendoli- che svolgevano il loro mercato nel Portico d’Ottavia, dunque in stretta vicinanza al Ghetto – erano soliti approntare per Carnevale carri e rappresentazioni teatrali farsesche, dette giudiate, dal forte sapore derisorio. Nel corso di esse erano presi di mira, ridicolizzandoli, precisi riti, preghiere, credenze e personaggi della tradizione religiosa degli ebrei nei cui confronti erano dimostrati avversione e disprezzo. Queste rappresentazioni erano costantemente denunciate alle autorità ecclesiastiche dai fattori, i capi della comunità, proprio per la tonalità virulenta e offensiva che fomentava odio e violenza nella popolazione che assisteva a tali spettacoli. I riti della violenza culminavano nella messa in scena, su carri decorati di fogliame e trainati da buoi che percorrevano tutta la città, di un teatro popolare itinerante che mimava momenti della vita quotidiana degli ebrei – ad esempio, la circoncisione, un costume che turbava moltissimo l’animo dei cristiani- culminando in genere nel funerale di un rabbino, accompagnato da una simbologia farsesca e denigratoria.

La “Cassa degli ebrei”, o la “Cassaccia” erano denominate tali rappresentazioni. Ancora in pieno Settecento le giudiate erano praticate con zelo e ostilità crescenti. Nel 1710 i fattori della comunità indirizzarono al papa Clemente XI un memoriale di protesta contro i pescivendoli che in occasione del Carnevale di quell’anno avevano portato “per Roma una cassa da morto con diverse teste d’Animali fingendo di far l’esequie di Rabbini morti , con scherni, et atti impropij da usar con morti, da che ne sono nati sempre inconvenienti, e scandoli grandi,a segno ch’alli poveri Hebrei gl’è convenuto per molti giorni starsene chiusi nel Ghetto, o pure esporsi a battute, e feriti dalla Plebbe”.

I fattori chiedevano che fosse revocato il permesso di fare “giudiate”, ma ciò non venne concesso. Così nel 1711 tornarono a denunciare ancora alle autorità ecclesiastiche la scena di un carro “nel quale (i cristiani) fingono di scorticare un Hebreo, ferendolo a guisa di un Porco”, celebrandone poi un finto funerale con tutte le parole e riti già proibiti con cui veniva deriso “un atto religioso”. Nel 1715, infine, la protesta riguardò una recita teatrale in cui si derideva “il pane azzimo, et altri riti della detta Legge Mosaica, facendo comparire Moisé, e li Rabbini in figura di mezz’uomo, e mezzo porco”. Si chiedeva perciò, ma sempre vanamente, di proibire una volta per tutte ai pescivendoli di inscenare tali “teatri”. Dunque, in una curiosa forma di rovesciamento, dalle lontane origini e di durata secolare, l’animale proibito veniva identificato dai cristiani con gli ebrei stessi e in particolare con i rabbini. Ma c’è qualcosa di più, e di più grave. Dall’immagine del maiale ferito o ucciso alla accusa di omicidio rituale il passo era breve. Il dileggio carnevalesco del pane azzimo e del divieto di cibarsi di maiale non si limitavano alla derisione dei costumi alimentari ebraici, ma avevano un altro pesante significato. Esso richiamava facilmente alla mente dei contemporanei che assistevano a tali rappresentazioni l’antica e sempre viva accusa di omicidio rituale che circolava largamente nel mondo cristiano, costituendo uno dei più terribili e pericolosi stereotipi antiebraici.

L’accusa, costruita sulla leggenda dell’uccisione rituale di un bambino cristiano, in genere nel corso della Settimana Santa, per spillarne il sangue con cui impastare le azzime, è da porsi in diretto rapporto con l’interpretazione cristiana dei divieti ebraici di mangiare maiale e di assumere sangue; in sostanza, l’idea sottesa a tale interpretazione era che gli ebrei/maiali si dovessero identificare proprio con ciò che era loro vietato, mentre il divieto di assumere sangue veniva letto al contrario come una “ossessione del sangue”. Gli ebrei erano assimilati ai maiali, e come tali venivano raffigurati nei carri carnevaleschi o anche, soprattutto nel mondo germanico, nelle diffuse rappresentazioni della scrofa madre degli ebrei. Ma essi, poiché non potevano mangiare un loro simile- cioè il maiale con cui erano identificati – uccidevano e “mangiavano” la carne e il sangue di un bambino cristiano, sostituto più vicino della bestia proibita ma desiderata. L’antropologia ha da tempo studiato il tema della somiglianza e contiguità tra bambini e maiali, animali dagli aspetti infantili e famigliari. D’altro canto, l’idea dell’uccisione rituale del bambino-vittima si avvicinava parecchio, nelle raffigurazioni, alle pratiche di dissanguamento che accompagnavano l’uccisione del maiale nelle società cristiane.

L’associazione tra il maiale e l’accusa di omicidio rituale è infatti evidente nelle rappresentazioni iconografiche del martirio di Simonino – il bambino cristiano la cui pretesa uccisione a Trento, nel 1475, divenne emblematica dell’accusa di omicidio rituale . Si capiscono perciò facilmente tutta la portata e le terribili conseguenze dell’ “accusa del sangue”, ancora circolante in piena età dei Lumi e largamente diffusa pure nell’Ottocento e nel Novecento e perfino ai nostri giorni in alcuni contesti violentemente antisemiti. Si trattava di una lettura precisa dell’essenza ebraica e dei suoi costumi che restò sempre attiva nella storia. Essa, nella sua terribile ripetizione nel tempo, costituisce una delle matrici dell’antisemitismo più diffuso e una delle giustificazioni quasi naturale – razziale, dal momento che proprio dalle caratteristiche delle orecchie si distinguono le diverse razze dei maiali – delle esclusioni, delle persecuzioni e degli stermini. Ancora in tempi recenti era molto diffuso in Italia il binomio ebreo/maiale racchiuso nel gesto offensivo e derisorio di piegare un pezzo di stoffa a mo’ di orecchio di porco e di sventolarlo davanti a un ebreo. Primo Levi racconta esattamente questa sua esperienza in Il sistema periodico. Oggi di tutti questi significati profondi, oscuri e inquietanti di tale binomio razzista non si è più consapevoli e ciò ha indotto a minimizzare quel che è successo. E invece la storia di queste usanze di irrisione e di ribadimento dell’inferiorità indirizzate contro gli ebrei e soprattutto i messaggi di violenza che veicolavano è antica e le sue ricadute sono state lunghe nel tempo. Non so di quanto di tutto questo si sia generalmente consapevoli mentre, proprio in concomitanza con il Giorno della Memoria, bisognerebbe esserlo. Quanto ancora resta da far sapere!