Fonte:
La Repubblica
Autore:
Dina Porat
Lotta all’antisemitismo Il dialogo Vaticano-Israele
In seguito al 7 ottobre tra la Santa Sede e lo Stato di Israele è sorta una serie di tensioni. Da un lato Papa Francesco ha pregato — profondamente commosso — per le anime delle vittime israeliane, ha chiesto l’immediato rilascio degli ostaggi, rapiti in modo disumano, esprimendo la disponibilità del Vaticano ad assumere un ruolo di mediazione e ha condannato le «terribili recenti espressioni di antisemitismo». Dall’altro il Segretario di Stato, cardinal Pietro Parolin, ha definito «genocidio» le azioni israeliane nella Striscia di Gaza, il Papa ha dichiarato che al terrore non si può rispondere con altro «terrore» collettivo — entrambe le affermazioni sono state fortemente contestate dalle autorità israeliane e un colloquio tra il Papa e il presidente israeliano Yitzhak Herzog ha avuto toni talmente duri da rimanere riservato. A che punto siamo oggi? Con l’intento di fornire un modesto contributo, facciamo un passo indietro. Nel gennaio 1904,120 anni fa, Theodor Herzl, il precursore dello Stato ebraico, sottopose a Papa Pio X una istanza pressante, chiedendogli di esprimere la propria benevolenza nei confronti del neonato movimento sionista e di sostenere la migrazione degli ebrei dall’Europa Orientale, dove erano costante vittima di persecuzioni e pogrom, nella Terra di Israele, dove avrebbero trovato rifugio. Il Papa oppose un netto rifiuto: gli ebrei non avevano riconosciuto Gesù e il suo messaggio, per cui era impossibile per lui riconoscere il movimento sionista. Inoltre il Papa era terrorizzato al pensiero che i luoghi santi per i Cristiani finissero in mani ebree e non prestò orecchio alla promessa di Herzl di dare a Gerusalemme uno status internazionale. Ma una trentina di anni fa tra il Vaticano e lo Stato di Israele è stato firmato un accordo fondamentale, che rappresenta un traguardo storico: dopo un periodo di 1.500 anni in cui la condizione di inferiorità del popolo ebraico umiliato e perseguitato era servita a dimostrare la superiorità cristiana, la Santa Sede riconosceva alla nazione ebraica il diritto di vivere sulla sua terra in uno Stato indipendente. L’opposizione alle aspirazioni sioniste a causa del rifiuto di riconoscere Gesù come il Cristo non vi trovava più spazio, e l’accordo includeva lo scambio di ambasciatori, la libertà di religione, culto e pellegrinaggio in Terra Santa e la permanenza dello status quo nei luoghi sacri al cristianesimo. Effettivamente da allora le relazioni bilaterali sono buone, commissioni paritetiche si incontrano e cooperano regolarmente, tre Papi si sono recati a Gerusalemme in visita di Stato e le loro visite a Yad Vashem, l’ente che si occupa della commemorazione dell’Olocausto e le corone di fiori deposte a Auschwitz hanno avuto un impatto notevole nella lotta al negazionismo dell’Olocausto. Fin qui tutto bene, va però sottolineato che il Vaticano era motivato dal desiderio di rimediare a errori storici e teologici, ma non di meno dalla volontà di partecipare ai negoziati sullo status di Gerusalemme a seguito degli Accordi di Oslo siglati qualche mese prima. Alcune problematiche non sono state risolte, in particolare quelle riguardanti lo status giuridico e finanziario dei numerosi beni di proprietà della Chiesa in tutto il Paese e quindi questo accordo storico è stato firmato, ma non ancora confermato dal governo israeliano. I due paragrafi contenuti nell’articolo secondo dell’accordo hanno massima rilevanza ad oggi e possono offrire un terreno di cooperazione. 1) La Santa Sede e lo Stato d’Israele si impegnano all’appropriata collaborazione alla lotta contro ogni forma di antisemitismo e ogni tipo di razzismo e di intolleranza religiosa. 2) La Santa Sede coglie l’occasione per ribadire la propria condanna dell’odio, della persecuzione e di ogni altra manifestazione di antisemitismo rivolta contro il popolo ebraico e i singoli ebrei, ovunque, in ogni tempo e da parte di chiunque. In particolare, la Santa Sede deplora gli attacchi ad ebrei e la profanazione delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici, atti che offendono la memoria delle vittime dell’Olocausto, in particolare quando avvengono negli stessi luoghi che ne sono stati testimoni. “Ribadire la propria condanna”, perché per numerosi decenni dopo il Concilio vaticano II nel 1965, il Vaticano aveva pubblicato una serie di documenti e discorsi in cui i suoi vertici condannavo inequivocabilmente l’antisemitismo ed esortavano a promuovere il dialogo con gli ebrei, ricordando ai credenti cristiani che Gesù, i suoi familiari e i suoi discepoli erano tutti ebrei di nascita. Veniva fatta inoltre esplicita menzione del ruolo della Chiesa cattolica nella diffusione dell’antisemitismo nei secoli precedenti l’Olocausto. L’attuale Papa, Francesco, che negli ultimi anni ha ripetutamente condannato l’antisemitismo, ha scritto e affermato: «Un cristiano non può essere antisemita», perché il cristianesimo è nato dal giudaismo. Vero, dicono intervistati il cardinal Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, e il rabbino David Rosen, che ha guidato i dialoghi cristiano-ebraici per decenni, ma questo importantissimo articolo secondo non ha mai avuto attuazione da nessuna delle due parti. Israele potrebbe, dice il rabbino, collaborare con il Vaticano tramite le ambasciate in tutto il mondo e distribuire i documenti vaticani e i discorsi dei Papi pronunciati e scritti prima dell’Accordo fondamentale e in seguito. La Chiesa può agire in qualità di leader religioso mondiale ora che l’antisemitismo è in crescita, afferma il cardinale, prendere forte posizione e lanciare un chiaro messaggio contro l’antisemitismo. L’insieme di azioni evidenziate dal cardinale e dal rabbino è senza alcun dubbio assolutamente necessario al momento attuale per rafforzare la lotta all’antisemitismo, soprattutto nel mondo cristiano, che conta oggi un miliardo e mezzo di fedeli e al fine di migliorare i rapporti tra le parti. E infine, un gesto profondamente commovente, proprio di questi giorni, è l’offerta del cardinale Pizzaballa di mettersi come ostaggio in mano ad Hamas a Gaza in cambio dei bimbi israeliani rapiti.
Dina Porat consulente accademico di Yad Vashem e prof emerito dell’Università di Tel Aviv (Traduzione di Emilia Benghi)