Fonte:
La Repubblica
Autore:
Tito Boeri e Roberto Perotti
La cultura della prevaricazione
L’episodio di squadrismo di cui è stato vittima il direttore di Repubblica a Napoli ha provocato reazioni prevedibili: le solite ferme condanne, le solite parole altisonanti su università e cultura, sulla necessità di educare al dialogo, gli inviti a non generalizzare, etc. etc. La nostra interpretazione, vissuta dall’interno dell’università, è un po’ diversa. I violenti, facinorosi ed esagitati sono certamente una minoranza, ma troppe volte agiscono nell’indifferenza, troppe volte le loro condanne sono ambigue, si portano appresso un asterisco, dei sottili distinguo. L’8 marzo alla Sapienza di Roma un gruppo studentesco invitò David Parenzo a parlare di questione femminile. Subissato di urla e insulti, l’opinionista riuscì a parlare, brevemente, solo dopo alcune porte e vetri rotti. Tutto questo è noto. Meno noto è che l’incontro non aveva nulla a che vedere con Gaza: semplicemente, Parenzo non aveva diritto di parlare in quanto ebreo. Ha poi ricevuto la solidarietà affettuosa, immediata e incondizionata della rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, ma non ha ricevuto un solo messaggio dai 5 mila docenti e 110 mila studenti dell’Ateneo. Né si hanno notizie di dibattiti o incontri, organizzati dall’amministrazione o spontaneamente dagli studenti, per discutere questo episodio di censura e minacce a una persona solo per la sua origine o religione. Non si può cambiare la mente degli ignoranti e degli esagitati. Ma non ricadiamo in tre errori frequenti. Primo, non attribuiamo ai giovani contestatori una credibilità intellettuale che non sempre hanno. Manifestare è un diritto e ascoltare il disagio è importante. Ma è importante anche rendersi conto che la stragrande maggioranza degli esagitati sono ignoranti che agiscono in un certo modo esattamente perché sono ignoranti. Nel caso di Napoli, per esempio, ignorano che il direttore Molinari è un critico feroce delle follie di Netanyahu; ignorano l’enorme differenziazione all’interno di Israele, una società spaccata sulla questione palestinese; ignorano l’enorme complessità della storia della Palestina; ignorano che moltissimi ebrei non sono sionisti, e che lo stesso sionismo ha mille sfaccettature e mille definizioni. Non c’è molta differenza tra questi giovani esaltati e i tifosi *** che allo stadio insultano il portiere del Milan. Anzi, i giovani universitari esaltati hanno un’aggravante: avrebbero gli strumenti per acquisire informazioni e capire l’importanza del confronto, libero e acceso ma informato, ma preferiscono esprimersi per slogan e urla, come i tifosi allo stadio. Peccato che invece di un pallone ci siano di mezzo due popoli. Secondo, non attribuiamo a questi esagitati una superiorità ideale. Quanti articoli abbiamo letto in questi giorni che dicevano più o meno: sbagliano nei metodi, ma sono mossi dagli ideali. Di quali ideali staremmo parlando esattamente? Deumanizzare sistematicamente l’avversario, come quando essi negano ostinatamente le atrocità commesse sulle donne ebree il 7 ottobre, il che non significa affatto disconoscere le immani sofferenze delle donne e dei bambini di Gaza? (Chiedete alla ragazza alla manifestazione dell’8 marzo a Firenze organizzata da “Non una di meno” in favore delle donne di Gaza, che esponeva il cartello “non una parola sugli stupii di Hamas?”, allontanata in malo modo perché non si può manifestare per “quello schifo dello Stato di Israele”). Quali ideali dovremmo percepire dietro il metodo degli slogan e delle semplificazioni, che hanno il solo scopo di liquidare l’avversario prima che apra bocca: ebreo = sionista = razzista = fascista, esattamente ciò che è stato contestato a Parenzo? La condivisibile indignazione per le stragi di civili a Gaza non concede alcuna cittadinanza a questi metodi squadristici. Infine, non commettiamo un terzo errore: attribuire a questi giovani almeno il coraggio di manifestare le proprie idee. Non facciamone degli eroi, non complimentiamoci con il loro impegno, perché non c’è quasi niente di costruttivo, ma c’è molto di infantilmente distruttivo, e senza il rischio di incorrere in conseguenze rilevanti. Non rendiamo loro un pessimo servizio, convincendoli che c’è un pubblico che magari (non sempre, purtroppo) dissente dai loro metodi o dalle loro idee, ma ne ammira l’impegno. Non è impegno: è la cultura della prevaricazione, della superficialità e della disinformazione. Darsi da fare per costruire un mondo migliore è tutta un’altra cosa.