5 Ottobre 2021

Intervista a Sergio Della Pergola

Fonte:

Avvenire

Autore:

Sergio Della Pergola, Barbara Uglietti

“L’antisemitismo e il ‘dialogo con chi vuol uccidere il dialogo’ ”

“Il 10 Ottobre ci riuniamo a Milano, nella Giornata europea della Cultura ebraica, per discutere intorno al terna del dialogo. Ecco: mi piacerebbe davvero che un rappresentante taleban, o un rappresentante iraniano, ci spiegassero qual è il loro concetto del dialogo. Possibilmente un dialogo che vada oltre il desiderio di annientamento della controparte». Sergio Della Pergola individua nel “dialogo con chi vuole uccidere il dialogo” la sfida che l’Occidente è chiamato ad affrontare di fronte ad attori, vecchi e nuovi, che si muovono sulla scena internazionale senza abbandonare i presupposti di cancellazione dell’altro. O della cultura dell’altro.

II nuovo regime in Afghanistan sta imponendo risposte. Ce ne sono?

Stiamo assistendo a fenomeni che a me paiono estremamente inquietanti. Credo ci siano situazioni storiche in cui non ci può essere compromesso. E vanno affrontate con una risolutezza che, invece, non vedo, soprattutto in Europa. A rischio c’è l’impianto democratico della società che abbiamo scelto e costruito. Ci sono già derive pericolose, segnali che non possono non essere raccolti.

Per esempio?

L’antisemitismo. È in crescita esponenziale. Ed è un fenomeno sicuramente più grave adesso in ragione della radicalizzazione dei conflitti su base religiosa o etnica.

In che modo sta cambiando?

Storicamente, ci sono molte “scuole di pensiero” antisemite che nei millenni hanno stratificato pregiudizi. Ci sono costanti di pensiero che sono antichissime. C’è chi rimane ancorato alla narrativa di un certo periodo, c’è chi ne sviluppa di nuove. Ma oggi le grandi direttrici restano soprattutto tre. Uno: negare all’ebreo di essere uguale agli altri. Due: negare la Shoah – che oggi non si concretizza tanto nella negazione dell’Olocausto, quanto nel tentativo di negare agli ebrei il diritto di avere una specifica memoria dell’Olocausto, negandone l’unicità. Tre: negare agli ebrei come popolo di avere un loro Stato, Israele.

Israele non è quasi mai oggetto di dialogo, piuttosto di scontro. Polarizza le opinioni come forse nessun’altra entità al mondo. Per quale motivo?

C’è una sensibilità eccessiva. Una specie di paradosso per cui ci si aspetta che Israele sia lo Stato perfetto, e si chiede a Israele di fare ciò che non è richiesto agli altri Paesi. Faccio un esempio: in Israele ci sono stati gravi disordini interni e la cosa è stata immediatamente evidenziata come una minaccia all’esistenza stessa dello Stato. Quando una scena identica avviene a Parigi, tutto rientra nella dinamica, pur drammatica, interna a un Paese. Con Israele si usano due pesi e due misure, ed è un grave sbilanciamento mediatico.

Viene invocato sempre più spesso il diritto di criticare Israele senza passare per antisemiti.

Si fa sempre una confusione colossale tra l’entità Stato di Israele e la personalità di chi guida il governo. Sono molto critico nei confronti del precedente esecutivo di Benjamin Netanyahu, a partire almeno dal 2015. È stato un percorso tragico per il Paese. Ma questo non può diventare il pretesto per mettere in critica il diritto ad esistere di Israele. E non si può accettare che quelle forme di ostilità che negano l’esistenza di Israele, o che propongono il boicottaggio di Israele, non vengano considerate forme di antisemitismo. Lo sono, eccome. Ci sono inchieste molto importanti fatte sulla base della popolazione ebraica in Europa (in particolare quella della Fra – l’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti fondamentali – che ha interessato 16mila ebrei in 12 Paesi dell’Unione) che ci danno una solida base di dati empirici su come le comunità ebraiche europee, pur nella loro diversità, valutano il fenomeno. E non c’è il minimo dubbio che la stragrande maggioranza del nostro campione percepisca la negazione di Israele, o la Bds (la campagna di boicottaggio) come un atto di antisemitismo. Gli ebrei la vedono così, e siccome l’antisemitismo è contro gli ebrei, gli ebrei hanno tutto il diritto di esprimere la loro opinione. Che va rispettata.

La critica principale che viene rivolta a Israele è quella di impedire ai palestinesi di avere un loro Stato.

No. Quella è solo una parte della critica. La critica comincia prima, con la negazione del diritto degli ebrei ad avere una loro nazione. Adesso circola anche questa assurda provocazione sullo “Stato binazionale”, come se gli ebrei non avessero una propria identità, e i palestinesi la loro. Come se si decidesse di fondere l’Italia con la ex-Jugoslavia. Per il resto, certo che i palestinesi hanno tutto il diritto di creare un loro Stato, e devono operare in modo da raggiungere questo obiettivo. Purtroppo direi che non hanno voluto o saputo creare le strutture essenziali dell’autogestione democratica.

Dal 1967 sono sotto occupazione. Peraltro, va riconosciuto che da più di 70 anni godono del sostegno politico, del supporto economico e della solidarietà della comunità internazionale. Perché finora non sono riusciti a mettere a frutto tutto ciò per concretizzare il loro legittimo diritto ad avere uno Stato?

Se guardiamo le carte geografiche stampate sui libri di testo delle scuole palestinesi si vede un solo territorio arabo musulmano che si chiama Palestina. Israele non esiste. Il problema è passare il Rubicone, riconoscere che Israele c’è. Da l si può partire per discutere sulle competenze delle due entità. Quanto alle enormi risorse, sono andate a rinforzare una costosa struttura bellica, come la missilistica e i camminamenti sotterranei, che ha portato solo sconfitte.

Con questo nuovo governo israeliano si aprono possibilità di dialogo?

Netanyahu ha perseguito in tutti i modi la politica della spaccatura e della delegittimazione del rivale. Non sarà difficile fare meglio. Sul fronte interno, in questi ultimi tre mesi l’esecutivo di Naftali Bennett ha fatto più di quanto Netanyahu abbia fatto negli ultimi tre anni. E vero che una coalizione così eterogenea difficilmente potrà prendere decisioni storiche, soprattutto sul fronte palestinese. Però, per la prima volta in coalizione c’è un partito di rappresentanza degli arabi, quello di Mansour Abbas. E’ un segno del nuovo corso. Pochi giorni fa il ministro della Difesa Benny Gantz è andato a Ramallah a parlare con Abu Mazen: un gesto che non si vedeva da anni. Mentre Bennett è andato a Washington da Joe Biden e al Cairo da al-Sisi, accolto con sincera amicizia. Forse siamo sulla strada giusta. Spero si vedranno risultati.