Fonte:
L’Huffigton Post - www.huffingtonpost.it
Autore:
Betti Guetta
La Shoah non è una questione “metafisica”: per non essere banalizzata va combattuta sul piano storico
La morte di Priebke e l’orrendo spettacolo che ne è seguito, l’approvazione in commissione Giustizia del Senato della legge contro il negazionismo, il numero tondo (70) di anni dal rastrellamento nazista del ghetto di Roma.
Mai come quest’anno l’anniversario del 16 ottobre ha un valore simbolico così denso. Tanto che mettere in relazione antisemitismo e memoria della Shoah è davvero un compito impegnativo al quale cercherò di dare una risposta dal punto di vista dell’osservazione sociologica.
Premessa: la Shoah è la manifestazione più grande dell’antisemitismo, ma l’attenzione che dobbiamo alla Shoah non deve farci dimenticare l’antisemitismo meno violento, quello meno dichiarato, quello più subdolo.
Per capirci: la quantità di iniziative dedicate alla memoria della Shoah hanno trasformato il 27 gennaio, giorno della Memoria, in una settimana di eventi con il rischio di portare a una banalizzazione della Shoah. Molti interventi infatti non sempre sono ancorati a un’esigenza di conoscenza storica, né a una riflessione politica, né a una disamina dei sistemi di valore della società odierna.
Nel suo essere paradigma del “male assoluto”, Auschwitz e la memoria di Auschwitz, diventano sempre più spesso il pretesto per impartire una lezione morale (“mai più”) privilegiando così il piano dei buoni sentimenti a quello della Storia.
La Shoah rischia di diventare un problema metafisico che non ha relazione con la Storia concreta. In ognuno di noi, nella nostra certezza espressa dal lapidario “mai più”, senza l’ausilio dello strumento Storia, in realtà s’insinua il dubbio che potrebbe succedere ancora: occorre combattere l’indifferenza insegnando la Storia.
Quale può essere la relazione tra memoria della Shoah e antisemitismo? E può esserci ancora antisemitismo dopo la shoah?
La risposta è sì, se la memoria è retorica, se la memoria non è Storia e conoscenza profonda, interiorizzata, condivisa. È sì, se non si educa alla partecipazione, alla responsabilità, a combattere l’indifferenza. È sì, se si tollerano il revisionismo, il negazionismo, il riduzionismo o la banalizzazione della Shoah.
In che misura la memoria della Shoah è utile a ridurre l’antisemitismo?
Nella misura in cui si sviluppa un ragionamento di conoscenza e comprensione della società, nella misura in cui lo studio del passato, della storia, serve a comprendere il presente.
Riferirò qui alcuni risultati di una ricerca qualitativa svolta al CDEC (Centro Documentazione Ebraica Contemporanea) lo scorso anno sull’immagine degli ebrei in Italia. La ricerca ha messo in evidenza quanto l’immagine degli ebrei in Italia sia sfaccettata, scontornata e confusa: passato, presente e futuro sembrano confusi, talvolta sconosciuti. Gli intervistati fanno fatica a ragionare sull’ebreo della porta accanto, l’ebreo comune, contemporaneo, vivente.
La conoscenza degli ebrei e della loro vita è scarsa, frammentaria, talvolta astorica, mentre la permanenza di pregiudizi e generalizzazioni è molto diffusa.
E se la conoscenza degli ebrei è scarsa, la loro frequentazione lo è ancora di più. Gli ebrei vengono “sentiti” come contemporaneamente vicini e lontani. Questo produce opinioni e sentimenti ambivalenti: sembra esserci sia curiosità che distacco, indifferenza, talvolta diffidenza, molto raramente ostilità, ma tanti, veramente tanti, pregiudizi.
L’immagine degli ebrei è forte, salda, resistente. Ma sfocata. C’è un sapere condiviso fatto più di luoghi comuni, di sentito dire, di idee che ritornano, di convinzioni senza incertezze. Emerge l’immagine abbastanza compatta di un gruppo con caratteristiche religiose e culturali molto forti, una comunità con grande coesione interna che mantiene con forza la propria cultura e tradizione, dotata di un grande senso del lavoro, dell’impegno, della famiglia.
Raramente le risposte sono contestualizzate, quasi mai si parla di un ebreo. La tendenza – come ben ci insegnano gli studiosi del pregiudizio – è quella di generalizzare un’informazione, un’opinione, un’idea a tutti gli ebrei.
La parola stessa “ebreo” sembra contenere un portato di immagine simbolica che trascina con sé molti stereotipi – sia negativi che positivi – alcuni dei quali millenari.
La presenza ebraica viene quasi sempre sopravvalutata, a Roma per alcuni intervistati gli ebrei sono 700 mila, addirittura un milione, c’è chi dice: che metà del Verano è ebraica, e così via.
Secondo alcuni intervistati gli ebrei hanno molto potere(finanziario, economico, politico) e questo potere si evince anche dal fatto che le autorità cittadine intervengano alle celebrazioni per il Giorno della memoria o che partecipino alla Giornata della Cultura Ebraica. Questo presenzialismo istituzionale starebbe a testimoniare il peso e il potere della comunità ebraica alla quale la politica sembrerebbe dovere sottomettersi.
Ma veniamo ora all’immagine della Shoah. Quella sedimentata nella coscienza popolare non è sempre chiara. L’informazione pubblica su questo capitolo della storia ebraica è legata, nella grande maggioranza dei casi, alle cerimonie commemorative, occasioni che offrono poco spazio a un’analisi profonda dell’esperienza del genocidio ebraico.
La scuola non sempre sembra incidere nella formazione dei giovani sul tema della seconda guerra mondiale e dello sterminio degli ebrei.
La Shoah emerge spesso in maniera poco precisa e circostanziata. Talvolta fa da sfondo, è un rimando nel discorso, altre volte viene rimossa. Ci sono riferimenti sommari, un pezzo di storia coperta dalla nebbia.
Una maggiore conoscenza e memoria storica emergono dal pubblico più anziano che esprime partecipazione diversamente dai giovani più distaccati e indifferenti.
Alcuni intervistati più giovani (25 anni in su) tendono ad annullare sessant’anni di storia e di geografia ebraica per precipitare nell’attualità dello Stato di Israele, a parlare di barbarie nazista a proposito della politica di quest’ultimo nei territori occupati. Questi giovani non parlano della Shoah ma unicamente del vittimismo ebraico. Per loro la Shoah è solo un argomento di copertura per cui gli ebrei ci marciano.
Gli intervistati anziani sono più consapevoli delle persecuzioni subite dagli ebrei e nel parlarne considerano e comprendono quanto questa esperienza abbia inciso nel determinare un atteggiamento di insicurezza che a sua volta può alimentare una forma di chiusura. Tra di loro emerge anche la perplessità sulle lacune storiche e la preoccupazione per una certa tendenza al revisionismo che potrebbe plagiare le menti dei giovani.
Di fronte all’atteggiamento circa il “vittimismo” ebraico dobbiamo porci una domanda: i più giovani sono più insofferenti verso la celebrazione della memoria perché non la conoscono o perché ne sono assediati? Dobbiamo in qualche modo capire l’insofferenza verso l’eccesso di memoria e riempirla di contenuti nuovi?
Come si vede, l’avvenimento dirimente nella storia ebraica e quello a più alta intensità emotiva e a più alto costo umano, la Shoah, può essere vissuta con modalità assai diverse da quelle immaginate: non come quello definitivo che assegna per sempre ragione o torto, che risulta per sua stessa natura indiscutibile e incontestabile, la Shoah può risultare – per alcune fasce generazionali e per alcune fasce sociali – il più equivocabile. Proprio l’affermazione dell'”unicità” della Shoah, proprio il suo carattere di “male assoluto” può lasciare perplessi segmenti di pubblico particolarmente vulnerabili in quanto il senso comune più diffuso è orientato alla relativizzazione degli assoluti.
In altri termini, sia lo sviluppo di una sorta di scetticismo di massa sia il processo di banalizzazione della morte nell’informazione e nello spettacolo quotidiani rendono assai difficile concettualizzare la dimensione di eccezionalità dello sterminio degli ebrei e considerarlo come un dato storico e morale acquisito.
Insomma è proprio quel processo di banalizzazione della morte così diffusa nelle società contemporanee che rischia di affermare l’idea che quella potente categoria di “banalità del male” che sta all’origine di Auschwitz, possa essere ridotta alla mediocrità di un luogo comune che rifiuta l’eccezionalità della Shoah fino a pensarla come una strage tra le altre all’interno di un mondo di stragi, quelle di ieri e quelle di oggi.