Fonte:
La Repubblica
Autore:
Giovanni Maria Flick
Una memoria comune contro l’odio
La denunzia di Liliana Segre e il suo ammonimento che gli odiatori devono essere «protetti e curati» riempiono la mente e il cuore di desolazione prima ancora che di paura e di reazione. La senatrice Segre rivendica il diritto-dovere di vivere, di ricordare e raccontare le atrocità di cui è stata vittima e testimone, di respingere «questa ondata spaventosa di odio e antisemitismo» anche nei confronti di ebrei italiani che non c’entrano e che non condividono le decisioni politiche dello Stato di Israele. Reagisce alla «indifferenza generale» di tutti noi e chiama in causa la responsabilità di tutti noi e di ciascuno di fronte all’accusa di essere in qualche modo corresponsabili di quell’indifferenza alla negazione o addirittura alla irrisione della Shoah. Purtroppo ha ragione, ed è ancora più ripugnante e inaccettabile che debba in questo modo “giustificare” novantatré annidi una vita piena di sofferenza, poi di ricordi e testimonianze; perché il ricordo di quelle atrocità non si scolori con il passare del tempo e la scomparsa dei suoi protagonisti. La memoria della Shoah muove dalle violenze degli anni ’20 del secolo scorso per l’avvento del fascismo, rese emblematiche dall’omicidio di Giacomo Matteotti che ricorda tutte le vittime della violenza fascista; violenze poi seguite dalle persecuzioni razziste con le ignobili leggi del 1938; dalla responsabilità del regime fascista nelle atrocità durante la guerra. Penso a Fossoli e al campo di smistamento verso i lager dello sterminio; alla Risiera di San Sabba a Trieste; alla cooperazione fascista alle numerose stragi naziste della popolazione civile, dei militari e dei partigiani, durante la Resistenza da cui nacque la Costituzione; alla deportazione degli ebrei di Roma il 16 ottobre 1943 da cui tornarono poche decine di persone; alla strage delle Fosse Ardeatine. È quanto basta per sottolineare la necessità almeno di rispettare una memoria che è comune a tutti noi, anche se purtroppo da molti non è condivisa ma è contrastata o totalmente ignorata; soprattutto dai più giovani nella loro abissale ignoranza di un passato che essi non hanno vissuto né conosciuto. È una ignoranza di cui siamo corresponsabili perché non abbiamo voluto o potuto o saputo raccontare loro un momento essenziale della nostra storia. La giusta e sacrosanta solidarietà con il popolo palestinese di fronte a una reazione sproporzionata oltre ogni dire — e da molti non condivisa neppure in Israele — con il coinvolgimento della popolazione civile non pub e non deve risolversi con una condanna spietata quanto generica dell’ebraismo in generale o dei suoi esponenti. Quella condanna ripercorre in modo ignorante e sprezzante il cammino dell’odio: l’antigiudaismo e il fanatismo religioso verso i “responsabili della morte di Cristo” e i loro discendenti; poi l’antisemitismo pseudoscientifico contro la “razza ebraica” in una assurda generalizzazione; infine l’antisionismo che chiama le persone a “rispondere” oggi della fondazione e dell’esistenza dello Stato ebraico da decenni. Sono le tappe del rifiuto inaccettabile di una “memoria almeno comune anche se non condivisa” da parte di una minoranza incolta e incivile nelle manifestazioni che si susseguono soprattutto tra e con i giovani e nell’ambito universitario. Dalla “pari dignità sociale” dell’articolo 3 della Costituzione stiamo passando alla “indignazione e indegnità collettiva” dell’odio alimentato dall’incultura, dalla superficialità e dalla strumentalizzazione “politica”. Non è un buon segnale per il futuro che ci attende e ci coinvolge tutti, se non sapremo reagire.