Fonte:
Moked.it
Autore:
David Meghnagi
La definizione Ihra di antisemitismo
La definizione di antisemitismo dell’Ihra non nasce nel vuoto. È il frutto di un processo complesso e sfaccettato che ha richiesto anni e che ad un certo momento ha reso ineludibile la questione delle nuove forma di antisemitismo, non quelle di tipo tradizionale legate alla persistenza dei pregiudizi religiosi di matrice cristiana, o di tipo razzista a cui la tragedia della Seconda guerra mondiale ha tolto la rispettabilità di un tempo. Ma di un antisemitismo di tipo nuovo declinato come antisionismo e che ha come sfondo la demonizzazione di Israele, la sua delegittimazione come nazione, la sua trasformazione in uno Stato paria perennemente messo in discussione e giudicato secondo standard che non si applicherebbero a nessuno altro Stato. Nella definizione non è messo in discussione, come falsamente alcuni affermano, il diritto alla critica politica di questo o di quel governo israeliano. Il diritto alla critica è il sale della democrazia e in Israele se ne fa ampiamente uso. Il fatto stesso di doverlo ogni volta ripetere è la spia di un problema politicamente e culturalmente irrisolto. Si parla qui dell’uso politico ossessivo di un doppio standard che coinvolge l’intera storia del Paese, una sorta di “colpa originaria” da cui ci si può emendare solo con l’abiura, e che ricorda da vicino il più antico degli anatemi religiosi contro gli ebrei.
Per decenni questo aspetto cruciale del nuovo antisemitismo è stato largamente eluso, negato o derubricato, come se la necessità di proteggere da attentati terroristi le sinagoghe e le scuole ebraiche in Europa, ventiquattro ore su ventiquattro, potesse essere considerato un fatto normale, e non il segno di qualcosa di inaccettabile che preannunciava sviluppi ben più devastanti, come è poi accaduto.
La necessità di una definizione è venuta a maturazione tra il 2015 e il 2016 con l’ascesa dell’Isis e la catena di attentati terroristici in Europa, che univano in un unicum indifferenziato l’odio per gli ebrei, per la civiltà occidentale e per Israele, con la mattanza e la conversione forzata dei cristiani e delle minoranze yazide nel Vicino Oriente. Chiudere gli occhi di fronte a un processo che rischiava di minare alle basi le condizioni stesse della convivenza religiosa e culturale in Europa, non era più possibile.
In questo nuovo clima, nel 2016 a Bucarest, è stata adottata una definizione operativa di antisemitismo che fungesse da orientamento per le istituzioni e per gli operatori culturali e per la politica. Una definizione che nelle parole dello storico Yehuda Bauer, che l’ha sostenuta, non ha una pretesa scientifica esaustiva, né vuole averla. Per sviscerare sul piano scientifico e accademico un problema che ha attraversato la storia per millenni ci vorrebbe ben altro. La definizione di antisemitismo dell’Ihra ha una funzione operativa, di orientamento politico e culturale. Non è un testo giuridico. Non potrebbe esserlo, né vuole esserlo. Non può essere calata direttamente in un ordinamento, né pretende di farlo. È una forma di soft law, una definizione da utilizzare con saggezza e che dovrebbe ispirare l’azione e orientare le scelte delle istituzioni e della politica.
La definizione è suddivisa in due parti. Un preambolo molto generico in cui si parla di “percezione” (un termine che è stato giustamente criticato per la sua indeterminatezza), che non per caso è stata quella che ha sollevato minori opposizioni da parte dei governi, ed una seconda parte costituita da undici indicatori che ne costituiscono il vero nucleo e aiutano guardare dentro i luoghi comuni del pregiudizio: non solo quelli legati alla storia dell’antisemitismo religioso di matrice religiosa cristiana e quello di stampo razzista, su cui all’interno della cultura democratica, dopo le tragedie della Seconda guerra mondiale e gli sviluppi della cultura post conciliare, esiste una larga convergenza di vedute. Ma le forme nuove che in forme diverse possono falsamente e perversamente ammantarsi di antirazzismo.