Fonte:
www.corriere.it
Autore:
Gaetano Azzariti, Gian Antonio Stella
Gaetano Azzariti: errori, ma non infamie
L’ex presidente della Corte Costituzionale, che fu anche a capo del tribunale della razza, commise di certo delle mancanze. Ma, secondo il nipote, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza, la sua storia non può essere semplicemente «liquidata»
Caro direttore, Gian Antonio Stella sulle colonne del Corriere della Sera è tornato più volte a denunciare la vicenda di Gaetano Azzariti ritenendo «insopportabile» che il presidente del Tribunale della razza possa aver ricoperto alti incarichi anche in epoca repubblicana, fino ad essere eletto Presidente della Corte costituzionale. Credo utile fornire una diversa lettura rispetto a quella proposta perché ciascuno possa, non tanto valutare la vicenda personale di un magistrato ormai morto da oltre cinquant’anni, quanto meglio comprendere la storia che è alle nostre spalle; che a me sembra sia più problematica di quanto non sia stata raffigurata.
«Un tribunale per “salvare”»
Anzitutto, sarebbe assai opportuno chiedersi cosa fosse il Tribunale della razza, andando oltre l’orrida denominazione posta dal regime fascista. Si scoprirebbe così che l’istituto «non aveva il compito di condannare, quanto piuttosto di ‘salvare’ dalle conseguenze delle leggi razziali talune persone considerate anagraficamente ebree, ‘arianizzandole’» (Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, Edizioni gruppo Abele, 2013, p. 91). Possono ovviamente esprimersi le più diverse valutazioni sul questo Tribunale che poteva essere adito da coloro che venivano discriminati a causa dell’appartenenza ad una razza. Non deve, dunque, necessariamente condividersi quanto è stato riconosciuto ad esempio dallo storico deportato comunista Ruggero Zangrandi, che dopo aver pubblicato un interessante studio sul fascismo (il lungo viaggio attraverso il fascismo, 1962) riconobbe che «l’istituto agisse in favore degli ebrei» (vedi all’archivio dell’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza la documentazione relativa). In ogni caso, non voglio fare di Gaetano Azzariti un salvatore degli ebrei (sebbene potrei richiamare tante testimonianze personali), ma è certo che operò in quella difficile situazione entro un’ambigua linea d’ombra, come tanti a quel tempo, che lavorarono silenziosamente al servizio delle istituzioni; dunque certamente anche del regime.
Le colpe collettive
Ma allora – in questa prospettiva – il problema della responsabilità individuale si sovrappone a quello delle responsabilità collettive. Colpe ve ne furono: di tutto il ceto intellettuale liberale, del quale Gaetano Azzariti, allievo di Scajola e di Mortara, faceva parte. I liberali contribuirono all’ascesa del fascismo (ci si ricorda del listone?), non ebbero poi modo o voglia di combatterlo nel ventennio. Ben più rigoroso fu l’atteggiamento e il sacrificio di altre tradizioni di pensiero (socialiste, comuniste, poi azioniste). Molti – soprattutto nella magistratura – furono coloro che continuarono a svolgere il loro mestiere con l’illusione di poter far prevalere il rispetto delle forme giuridiche sulla sostanza del potere autoritario (dovremmo tornare a rileggere gli scritti sulla forma come limite al potere autoritario di un grande antifascista, Pietro Calamandrei, estimatore e amico di Gaetano Azzariti). È strano che la cultura oggi dominante – «liberale» ancora una volta – tenda a non mettersi in gioco, ma semmai a trovare capri espiatori. Ma lasciamo perdere le responsabilità del crocianesimo e torniamo a quelle individuali. Gaetano Azzariti diresse per oltre un quarantennio l’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia. Sarebbe opportuno, nel momento in cui si vuole giudicare la vita di una persona, andare a vedere cosa fu e cosa fece quell’ufficio. Si scoprirebbe che rappresentò non solo un luogo di elaborazione tecnica nella fattura delle leggi, ma anche un luogo di interlocuzione con la cultura giuridica liberale non fascista: cultura posta ai margini, combattuta e disprezzata, ma che ebbe un ruolo tutt’altro che irrilevante – secondo molti decisivo – ad esempio nella elaborazione dei codici.
L’adesione al «manifesto della razza»
C’è qualcosa che incrina questo quadro e che potrebbe giustificare una condanna morale e politica. Dopo l’orripilante pubblicazione del manifesto della razza, come dovrebbe essere noto, il regime chiese all’alta burocrazia e a molti intellettuali di aderire. Gaetano Azzariti aderì. Quali che fossero le ragioni non importa e non riferirò neppure quel che una tradizione orale mi ha tramandato. Ma rilevo che ci fu un rapporto tra quella ingiustificabile adesione e la possibilità di assegnare la presidenza del Tribunale della razza ad un tecnico che fece – secondo quanto ho ricordato – di quell’istituto un organo che ha “salvato” alcuni dei sommersi e ha provato ad attenuare – almeno attenuare – le perversioni di un regime razzista. Certo non fu una scelta facile, né un compito svolto in un ambiente trasparente: l’estrema dimostrazione di dove possa portare la collaborazione con un regime. Sarebbe stato necessario dire di no, non c’è dubbio. Ma forse le pressioni non furono solo quelle del regime, ma anche di coloro che guardavano ad un tecnico come una scelta possibile per limitare le aberrazioni del tempo.
La storia e le scelte
Chi ritiene Azzariti pienamente integrato alla logica del regime potrebbe anche riflettere su due dati storici. Dopo il 25 luglio del 1943 fu nominato ministro della Giustizia del primo governo Badoglio, segno evidente che non fu certo un giurista di Mussolini. Ci si dovrebbe ricordare, inoltre, la condannato a morte nei suoi confronti comminata dai repubblichini: è da dubitare che fosse nella ristretta cerchia dei più elevati e fidati gerarchi del regime. Ci si stupisce, infine, che Palmiro Togliatti scelse proprio Azzariti come capo di gabinetto subito dopo la caduta del fascismo. Ci si dovrebbe invece chiedere quali furono le ragioni di una tale scelta. Nessuno credo possa ritenere che il capo politico del partito comunista potesse valorizzare un antisemita o un giurista fascista. Entro la prospettiva politica di pacificazione che veniva allora promossa da Togliatti (che può essere ovviamente discussa, ma non è questo ora il punto) non è difficile comprendere che si volesse coinvolgere l’alta burocrazia. Nel caso di Azzariti ritengo che si volle riconoscere anche quel che oggi gli si vuole imputare: un lavoro silenzioso di contenimento nelle forme del giuridico delle politiche del regime. Chi conosce un po’ la storia del pensiero giuridico sa quanto s’è discusso sulle virtualità e i limiti del formalismo giuridico. Si possono condannare gli atteggiamenti dei formalisti, la decisione di Togliatti, la continuità nel passaggio tra regime fascista e Repubblica. Ma questa storia non ha nulla di criminale. Gaetano Azzariti dopo il fascismo non fu solo il secondo presidente della Corte costituzionale, ebbe anche un ruolo decisivo nella costruzione del nuovo Stato e contribuì alla stessa scrittura della Costituzione (fece pare della Commissione Forti), fu anche il redattore della prima sentenza della Corte costituzionale: quella che impose il controllo di costituzionalità sulle leggi anche anteriori l’entrata in vigore della Costituzione (quelle promulgate durante il ventennio, dunque). Una storia che può far riflettere, discutere, dividere, ma che non credo vada semplicemente liquidata come una storia infame.
Gaetano Azzariti
Cosa fosse il tribunale della razza lo spiegò, con parole tremende, Renzo De Felice: una «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro». Quanto alla condanna a morte da parte della Repubblica di Salò che dimostrerebbe la verginità di Azzariti («difficile pensare che fosse il giurista di Mussolini», scrive il nipote) la motivazione appare piuttosto semplice: i repubblichini consideravano quello che era stato il massimo dirigente della Giustizia sotto il Duce un voltagabbana traditore. Lo scrive furente, in un articolo sul Corriere del 26 ottobre 1943, l’ex sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Morelli ricordando che sotto la direzione del nostro erano state fatte «tutte le leggi fasciste» e che caduto il Duce aveva subito «rivoltato la giubba, da fascista ad antifascista».
Gian Antonio Stella