29 Marzo 2024

Il giurista Vladimiro Zagrebelsky critica il BDS anti Israele promosso da alcune università italiane e da gruppi universitari estremisti

Fonte:

La Stampa

Autore:

Vladimiro Zagrebelsky

Perché le Università sbagliano se tagliano i rapporti con Israele

Le manifestazioni che si diffondono nelle Università italiane, per contribuire all’isolamento di Israele con il rifiuto di partecipare a progetti di ricerca con Università israeliane, muovono dal rifiuto di ciò che il governo Netanyahu ha scatenato nella striscia di Gaza, le decine di migliaia di morti civili, bambini, donne, uomini, le distruzioni di abitazioni e strutture civili, lo spostamento coatto di centinaia di migliaia di persone. Un rifiuto che ha fondamento morale, civile e giuridico, secondo quanto prevede il diritto di guerra nelle norme internazionali. Un rifiuto, tuttavia, che perde credibilità quando, come sta avvenendo, evita di essere accompagnato almeno dalla menzione di eguale ripulsa per il barbarico massacro di ebrei commesso da Hamas il precedente 7 ottobre e per la sorte degli ostaggi. La natura delle vicende retrostanti e tuttora in corso, in ogni caso è tale da dare forza alle proteste e chiamare alla mobilitazione. Una mobilitazione che per ora si esprime con la richiesta alle Università italiane di rifiutare di presentare progetti di ricerca comuni con Università israeliane secondo un bando pubblicato dal Ministero degli Esteri. Si tratterebbe di progetti riguardanti uno dei seguenti temi: tecnologie per suoli salubri, tecnologie relative all’acqua (come il trattamento dell’acqua potabile e dei liquami industriali, la desalinizzazione) o, infine, l’ottica di precisione, le tecnologie elettroniche e quantiche per applicazioni di frontiera come quelle dei rilevatori di onde gravitazionali. L’eventuale presentazione di progetti di ricerca da parte di Università italiane dovrebbe inserirsi nel quadro dei temi così definiti, potendo evidentemente tenersi ben lontana da questioni suscettibili di impieghi militari. Ma del terreno su cui Università italiane potrebbero sviluppare collaborazione con una o altra Università israeliane non si parla, dando per scontato un legame con la guerra a Gaza. E chiaro che si è di fronte all’uso pretestuoso di una occasione non pertinente, al fine di chiedere e pretendere la cessazione di ogni rapporto con le Università israeliane, in quanto tali, in quanto israeliane. Se così è la questione assume un carattere generale e di principio. E riguarda anche situazioni diverse, come abbiamo visto quando la Russia ha aggredito l’Ucraina evi è stato chi voleva impedire una lezione universitaria su Dostoevskij o ad una soprano russa di cantare alla Scala. Allora come ora, si trattava di negare un principio fondamentale, come quello che protegge la cultura, le arti, la ricerca e ne fa strumento di un dialogo che appartiene all’umanità, permettendone la pacifica maturazione. E si ignora che nelle Università israeliane si trova gran parte dell’opposizione al governo Netanyahu. Non si considera poi il carattere pluralistico della società israeliana e del mondo della cultura rappresentato dalle Università. La testimonianza resa nella sua intervista a questo giornale da Anna Foa dovrebbe essere considerata decisiva in proposito. Dovrebbero anche essere ricordati i mesi di clamorosa mobilitazione di metà della società israeliana, contro i progetti governativi di riduzione della Corte suprema e del suo ruolo di garanzia. La critica al merito delle rivendicazioni che il movimento universitario porta avanti non esaurisce le questioni aperte. Si tratta infatti anche di problemi fondamentali di metodo che riguardano il confronto di idee ed argomenti, di procedure e luoghi delle decisioni, di rispetto ed anche interesse per le opinioni altrui. Vi è poi un aspetto di opportunità politica, che sconsiglia di consentire al movimento di divenire e attrarre simpatia perché vittima del rifiuto di ascoltarne le ragioni, indipendentemente dal loro merito. Ma soprattutto va rispettato il criterio di base che consiste nel riconoscere a tutti il diritto a esprimere opinioni (anche quelle che disturbano e non si condividono), tanto più in ambito universitario. Con la precisazione che aprirsi al dibattito (e quindi per esempio da parte di tutti leggere e discutere il bando ministeriale per i progetti di ricerca) non significa necessariamente aderire alle opinioni altrui e ancor meno ammettere che si diano forme di intimidazione o violenza. E il dialogo deve essere aperto ed anzi sollecitato con tutti, anche con coloro che, tra studenti e docenti, hanno posizioni diverse da quelle proprie dei manifestanti. Può certo non essere facile l’impegno che si richiede a rettori e senati accademici, ma è una difficoltà e un’occasione ineludibile. Così colpisce negativamente la chiusura burocratica – che si vuole velare, adottando un tono legalistico – espressa dal Senato accademico dell’Università La Sapienza di Roma, quando dichiara l’intenzione di impedire di «sovvertire gli organi decisionali formati dai rappresentanti eletti delle diverse componenti della Comunità accademica, legittimati a portare negli Organi la voce e le opinioni dei soggetti rappresentati» e dalla Rettrice che scrive che «la Sapienza riconosce quali strumenti di comunicazione e di decisione quelli definiti dalle leggi e dai regolamenti». Sembrerebbero dichiarazioni ovvie. Esse però chiudono a ogni prospettiva di dialogo con una realtà che di fatto esiste, esprime opinioni, trova consensi. E che va oltre la sola voce dei sei studenti eletti al Senato accademico. Chiara Saraceno, anch’essa su La Stampa, ne ha l’altro giorno illustrato la natura, con l’obbligo di prenderne atto aprendosi al dialogo.

Photo Credits. Wikipedia