Fonte:
La Stampa
Autore:
Maurizio Molinari
Gangster jihadisti in Europa
La strage di Strasburgo dimostra che il terrorismo islamico resta una minaccia per l’Europa a dispetto della disintegrazione territoriale del Califfato jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi. I motivi hanno a che vedere con la natura di questo avversario – non è un’organizzazione ma un’ideologia – che gli permette di sopravvivere a smacchi, adattarsi alle sconfitte militari trasformandosi in continuazione per poter tornare a colpire. Se la caduta di Raqqa, nell’ottobre dello scorso anno, ha portato alla riduzione del Califfato a poche enclaves nel deserto siriano-iracheno ma non alla sua definitiva sconfitta è perché l’idea di fondo che ispira al Baghdadi è viva e vegeta. Si tratta del rifiuto viscerale della modernità che il teologo egiziano Hassan El Banna espresse nel 1928 e che, da allora, ha ispirato incarnazioni diverse dell’estremismo islamico fino a portare la Jihad islamica egiziana di Ayman al-Zawahiri a firmare nel 1998 l’accordo con Osama Bin Laden da cui nacque Al Qaeda, ovvero la fonte da cui discendono la galassia di gruppi sanguinari arrivati fino a noi, incluso l’Isis che ha definito un proprio «soldato» Cherif Chekatt, autore della strage di Place Kiéber. Se a oltre 17 anni dall’attacco dell’11 settembre a New York e Washington il jihadismo ha mietuto in un mercatino di Natale alsaziano altre vittime – incluso Antonio Megalizzi – è perché non ha bisogno di piani, armi e basi per colpire disponendo di un’idea tanto feroce quanto contagiosa. Uccidere il prossimo nella convinzione che ciò possa avvicinare il progetto totalitario dell’eliminazione degli avversari e della sottomissione del Pianeta. Chekatt rappresenta una tipologia particolare di incarnazione di questa ideologia: era un immigrato di seconda generazione divenuto «gangster jihadista» perché trovava nel mondo del crimine la propria dimensione, affiancandole la versione più estrema dell’Islam che lo ha portato a gridare «Allah hu-Akban, mentre sparava su ignari passanti. Prima di lui «gangster jihadisti» sono stati Mohammed Merah, che attaccò nel 2012 una scuola ebraica a Tolosa, Said e Cherif Kouachi membri del commando del Bataclan nel 2015, Amedy Coulibaly che sempre nel 2015 fece fuoco in un supermercato kosher parigino, Zied Ben Belgacem e Karim Cheurfi che nel 2017 tentarono gravi attacchi, e Redouane Lakim che nel marzo scorso ha ucciso un agente francese. La sovrapposizione fra criminali comuni ed estremismo islamico nelle città europee è solo una delle declinazioni dell’ideologia del Califfato jihadista che sopravvivono in più forme e territori: dai gruppi salafiti tunisini alle cellule di Isis nel Fezzan, dalle unità armate del Sinai fino ai taleban afghani ed ai circa ventimila reduci di Raqqa che, secondo il leader curdo Massoud Barzani, «non sono scomparsi ma si sono dispersi sul territorio in attesa del momento del riscatto». L’aumento nel 2018 dei microattacchi di Isis in Iraq e in particolare nella regione di Kirkuk – documentato da un rapporto del Centro di studi strategici e internazionali di Washington pubblicato a fine novembre – avvalora la tesi di Bruce Hoffman, esperto di terrorismo, alla Georgetown University di Washington, secondo il quale «il Califfato sapeva che avrebbe perso il confronto militare diretto e si è preparato a gestire la sconfitta» puntando sulla parcellizzazioni degli attacchi: in Iraq per colpire singoli giudici, agenti e sindaci – il numero è raddoppiato rispetto al 2017 e in Europa affidandosi ai «lupi solitari» talmente isolati e staccati da ogni network da essere imprevedibili, ponendo una sfida formidabile a ogni tipologia di prevenzione. Basti pensare che in Francia gli estremisti islamici catalogati dalla polizia «a rischio» sono 18 mila e quelli «che potrebbero colpire» ben 4000. Per sorvegliarli tutti, 24 ore al giorno, servirebbe un’armata di agenti. Ciò significa che per ogni Paese europeo si tratta di una minaccia immanente e seria. Per descrivere questa stagione di conflitto jihadista diffuso e scoordinato verso l’Occidente un veterano dell’Isis ha adoperato il termine «guerra di attrito» riassumendo in maniera esemplare la sensazione di considerarsi ingranaggio di un lungo e feroce conflitto. Lo stesso con cui l’Europa è chiamata a confrontarsi, a prescindere se i suoi governi siano populisti o meno.
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