30 Agosto 2024

Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC, riflette con Umberto De Giovannangeli sui contenuti del suo ultimo saggio “Sugli ebrei. Domande su antisemitismo, sionismo, Israele e democrazia”, Bollati Boringhieri, 2024

Fonte:

L'Unità

Autore:

Umberto De Giovannangeli

«L’antisemitismo non è un virus. E’ un modo di pensare che attraversa destra e sinistra»

«La distinzione tra ebrei della diaspora ed ebrei israeliani non è così rigida. Ma almeno si deve provare a comprendere la complessità: spesso non si riesce neanche a riconoscere la dialettica interna alla comunità di Israele»

Un libro importante. Coraggioso. Di stringente, drammatica attualità. Sugli ebrei. Domande su antisemitismo, sionismo, Israele e democrazia (Bollati Boringhieri, 2024). L’autore è Gadi Luzzatto Voghera, figura di primissimo piano nell’ebraismo italiano. Direttore della fondazione Centro di Documentazione ebraica contemporanea (Cdec). Studioso di Storia contemporanea, specialista in Storia degli ebrei e dell’antisemitismo, è membro della delegazione italiana nell’International holocaust remembrance alliance (Ihra). Fra le sue pubblicazioni più significative ricordiamo Antisemitismo. Domande e Risposte (1994), Il prezzo dell ‘eguaglianza. Il dibattito sull’emancipazione degli ebrei in Italia (17811848) (1998), Antisemitismo a sinistra (2007), Rabbini (2011) e Antisemitismo (2018).

L’antisemitismo è un virus che continua a circolare. Quali le forme più pericolose?

L’utilizzo del concetto di virus quando si tratta di antisemitismo è molto diffuso nel mondo della comunicazione. Ma si tratta a mio parere di un errore. Non ci troviamo di fronte a una malattia, che magari potremmo tentare di curare con qualche vaccino. L’antisemitismo è, al contrario, una costruzione del tutto “umana”. Negli ultimi anni si è constatato che ci si trova di fronte a una vera e propria emergenza politica e sociale. L’illusione per cui dopo lo sterminio degli ebrei in Europa non sarebbe stato più accettato dalla società civile un certo tipo di retorica anti-ebraica, unito a comportamenti aggressivi, si è progressivamente dimostrata falsa, una speranza un po’ naive che non teneva conto di una realtà di per sé semplice, seppure difficile da accettare. Voglio dire che l’antisemitismo è a tutti gli effetti un linguaggio politico elaborato e prodotto nella società moderna. Un complesso di segni e di comportamenti che si fondano su radicati stereotipi e pregiudizi secolari. Uno strumento che si è dimostrato particolarmente efficace nella dialettica sociopolitica. Come si vede, quindi, molto più che un semplice virus. Il pericolo immediato è certamente connesso all’incolumità fisica degli ebrei e delle loro istituzioni (la sua crescita costante è segnalata da molti sondaggi). Ma direi che il pericolo maggiore della diffusione dell’antisemitismo è legato alla tenuta delle democrazie liberali. La minaccia antisemita, infatti, ha come obiettivo la libertà religiosa, la libertà di parola (ad esempio all’interno delle università o nei dibattiti pubblici dove a molti ebrei è stato di recente impedito di Parlare). il diritto all’istruzione, il diritto alla sicurezza dei singoli. Se un ebreo per vivere tranquillo oggi deve evitane di mostrare simboli religiosi, significa che è il principio stesso di libertà ad essere sotto attacco.

La diaspora e Israele. Un rapporto inestinguibile, ma come declinarlo in modo plurale, dialettico?

Questo tema è parte di un dibattito che dura da prima della nascita dello Stato d’Israele. Ed è un tema complesso. Parliamo di due entità per nulla omogenee, e di nuovo torna in campo in qualche modo l’antisemitismo. Infatti, il linguaggio antisemita tende a semplificare e appiattire. Costruisce un nemico — l’ebreo — e gli assegna fasulle caratteristiche collettive e negative univoche che servono poi a produrre retoriche e messaggi propagandistici (anche azioni vere e proprie a volte, purtroppo). Il problema è che il linguaggio antisemita è molto semplice e comunicativo, per cui alla fine ha la meglio sulle più difficili forme della complessità. Così torno alla domanda sul rapporto diaspora/Israele: quale diaspora, e quale Israele? Parliamo dell’Israele del governo attuale, o della società israeliana nel suo complesso? E parliamo della diaspora europea o di quella americana, che a loro volta sono molto articolate e non conoscono un organismo di “governo” comune? È certo che le scelte compiute dai governi in Israele si ripercuotono anche sulle vite degli ebrei nella diaspora, ma è anche vero che le opinioni generate dai gruppi organizzati di ebrei diasporici hanno un peso rilevante sulla società israeliana. Nell’era della globalizzazione, poi, è sempre più difficile mantenere una distinzione rigida: molti ebrei vivono parte della loro vita in Israele e parte al di fuori, moltissimi israeliani vivono, lavorano e studiano fuori da Israele (pensiamo alle decine di migliaia che vivono in Germania o negli Stati Uniti, ma anche in Italia ce ne sono moltissimi). Cosa sono costoro, ebrei della diaspora o israeliani? E in che modo si declina la loro identità di ebrei? Di certo ci sono ebrei che si riconoscono nelle regole di comportamento tradizionali (alimentazione kosher, rispetto dei precetti ecc.), altri totalmente secolarizzati che si tengono ben lontani dalle sinagoghe e dalle comunità organizzate, e che non per questo sono meno ebrei. Di tutto questo bisogna tener conto e la dialettica interna alla società israeliana è in questo un esempio ben riconoscibile: le tensioni politiche e sociali tra haredìm (ebrei ultra ortodossi ndr) e hilonìm (ebrei non osservanti) sono sotto gli occhi di tutti, anche se a volte nel mondo occidentale non sembra ci sia interesse sulla questione.

Lo chiedo ad un uomo di sinistra. C’è anche un antisemitismo a sinistra, di sinistra?

Rispondo seccamente: sì. Anni fa in un piccolo pamphlet che ho voluto dedicare al tema ho cercato di spiegare che l’esistenza di correnti antisemite a sinistra è un dato storico ineludibile. Alcune delle correnti fondative del progressismo europeo contenevano anche discorsi apertamente anti-ebraici. Gli stessi processi di emancipazione e di integrazione degli ebrei nella società europea sono stati accompagnati da virulenti attacchi alla cultura e alla tradizione ebraica interpretati come elementi negativi nella storia della civiltà. Come conseguenza, non si può non vedere come nelle diverse manifestazioni di socialismo “reale” è mancata la presenza di una ben radicata retorica antisemita. Si tratta di questioni sulle quali il più delle volte a sinistra prevale un atteggiamento di negazione. Ma è sbagliato non vedere i problemi in casa propria e nascondere la polvere sotto il tappeto. Una negazione che ha comportato l’incapacità dei movimenti progressisti di riconoscere e combattere al proprio interno l’esistenza di aspetti e correrti che anche apertamente si richiamavano all’uso di un linguaggio antisemita, indebolendo in tal modo il lavoro politico nel suo complesso. Una difficoltà che è tutt’altro che tramontata, anche se ci sono segnali positivi, come nel recente caso dei laburisti inglesi. Le crisi mediorientali riportano continuamente alla ribalta l’uso pubblico di stereotipi, immagini, richiami retorici legati a doppio filo con l’ideologia e il linguaggio del moderno antisemitismo politico. A sinistra troppo spesso si fatica a riconoscere questi elementi, e quando vengono identificati si ha la tendenza a condannarli come estranei alla cultura politica della sinistra stessa. Questo è sbagliato. Come è a mio parere sbagliato affermare — come vorrebbero certi ambienti che al contrario tendono ad assolvere l’antisemitismo a destra, abbagliati da una pelosa e superficiale retorica filo-israeliana — che l’antisemitismo farebbe parte radicalmente integrante e ineliminabile della politica di sinistra. Credo sia più corretto riconoscere che l’antisemitismo è un linguaggio politico che attraversa tutte — ripeto, tutte! — le correnti ideologiche politiche contemporanee, compresa la sinistra socialista, comunista e finanche riformista. Riconoscerne le origini, comprenderne i nodi concettuali e le radici storiche, può aiutare la sinistra attuale a emarginare gli elementi del linguaggio antisemita dal proprio discorso politico.

Senza memoria non c’è futuro. Ma in Italia non si è un po’ troppo smemorati rispetto al fascismo e alle sue riedizioni?

L’Italia soffre da sempre di amnesie storiche, e non solo a proposito del fascismo. L’idea del cosiddetto “bravo italiano” prevale nell’utilizzo pubblico della storia e facciamo una gran fatica a riconoscere passaggi eticamente poco edificanti che hanno caratterizzato il lungo percorso di costruzione dello Stato unitario e delle sue istituzioni. L’idea che siamo un “popolo di naviganti, eroi, poeti e santi” (ricordo il bel testo del premio Nobel a Dario Fo) mette d’accordo tutti, per cui ci dimentichiamo ad esempio della sanguinosa repressione del cosiddetto brigantaggio a metà Ottocento, mettiamo tra parentesi le esperienze coloniali caratterizzate da stragi e ruberie, preferiamo le espressioni retoriche nel descrivere la guerra e la resistenza, tralasciando i nodi ancora irrisolti che caratterizzano nella sua sostanza una guerra civile. La retorica benevola accompagna anche la memoria della Shoah, per cui troppo spesso si sorvola sulle responsabilità dei singoli, sui silenzi, sul collaborazionismo interessato o ideologico, preferendo indugiare sulla comoda categoria dei “giusti” (che pure ci furono). Il fascismo, la valutazione del peso di quel regime e delle sue basi ideologiche sul nostro presente, è parte di questo quadro allargato. Non parlo solo dei partiti al governo attualmente, che hanno di certo un’importante responsabilità in questo. Ma in Italia ci limitiamo a protestare per un saluto romano a una manifestazione (gravissimo, e oggettivamente reato penale quasi mai perseguito) senza constatare che ci sono intere strutture del nostro Stato che sono direttamente eredi del disegno centralizzatore del regime, elaborate con l’idea di costruire una “nazione organica”. Che dire degli ordini professionali centralizzati e obbligatori, di intere parti del Codice penale e del Codice civile. Nonostante l’innegabile svolta determinata dalla Costituzione repubblicana, si è fatto ancora troppo poco per lavorare in direzione di una trasformazione moderna di uno Stato che è anche il frutto di decisioni volute dal regime fascista. Non resterei quindi legato ai soli eccessi simbolici (che ci sono e vanno combattuti) ma inviterei a lavorare più in profondità. Solo allora potremo permetterci un museo nazionale dell’Italia durante il regime fascista, frutto di una riflessione non reticente. Ma non mi sembra siano ancora maturi i tempi.