3 Aprile 2024

Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC, commenta i recenti casi di BDS nelle università italiane

Fonte:

La Repubblica

Autore:

Gadi Luzzatto Voghera

Antisemitismo Il conformismo degli atenei

Caro Direttore, i collettivi di alcune università hanno annunciato una settimana di mobilitazione in vista della scadenza, il 10 aprile, dei termini perla presentazione dei progetti congiunti di ricerca industriale, scientifica e tecnologica italo-israeliani. Penso sia una buona occasione per ragionare sul ruolo che gli istituti universitari hanno nel nostro Paese. L’università è un’istituzione dove ci si iscrive per essere formati a ruoli e funzioni che accompagnano la crescita della società civile. L’università è anche un luogo di ricerca: giovani menti ed esperti docenti si misurano con le sfide teoriche che conducono a elaborare scoperte che migliorano la vita e ci aiutano a comprendere i meccanismi della natura. E l’università è, inoltre, un luogo di confronto aperto, dove diverse idee trovano spazio per esprimersi. Questa è o dovrebbe essere l’università, che tuttavia è anche lo specchio della società, compresi pregi e difetti. Si tratta di un microcosmo in cui si possono osservare i problemi da cui la società è afflitta: arrivismo e incompetenza, giochi di potere, cordate personalistiche, bullismo orizzontale (tra studenti e tra colleghi) e verticale (tra docenti e studenti). Un luogo dove le eccellenze, che non mancano, convivono con le mediocrità. Questo è il contesto. Poi c’è il confronto necessario con la storia. Negli anni del terrorismo gli atenei sono stati luogo di scontro. Gruppi di studenti organizzati si affrontavano con bastoni e catene, docenti venivano minacciati, picchiati e a volte sparati. La violenza era esercitata usualmente e minava alla radice le ragioni stesse per cui un’università esiste. In precedenza, durante il fascismo, l’università era stata un’istituzione su cui il regime aveva imposto i suoi criteri di potere. Già nel 1931 ai docenti venne richiesto di giurare fedeltà “alla patria e al regime fascista”. Ci voleva coraggio a rifiutare. Su oltre milleduecento professori solo dodici dissero no. I docenti universitari, come il resto degli italiani, dimostrarono allora una certa propensione al conformismo. Un atteggiamento che non mutò — anzi, se possibile si aggravò — quando nel settembre del 1938 il regime fascista decretò la cacciata di quasi cento docenti universitari ordinari, centinaia di assistenti e migliaia di studenti perché “di razza ebraica”. All’epoca, le conseguenze più visibili furono una perdita secca di competenze (con l’azzeramento di eccellenze come la scuola di fisica teorica), una corsa spasmodica a ricoprire i ruoli lasciati vacanti dai colleghi ebrei e un’emorragia di giovani intelligenze, molte delle quali persero la vita nei lager nazisti. L’università è anche un luogo fortemente corporativo. In quanto tale fa molta fatica ad assumersi le responsabilità storiche di cui quell’istituzione dovrebbe farsi carico. Anche in questo caso si tratta di uno specchio della società. Il nostro Paese non ha fatto i conti con il fascismo. Manca una riflessione collettiva che produca, ad esempio, un museo dedicato agli anni del regime mussoliniano. L’eco di quel ventennio pesa a tal punto sulla società italiana che a distanza di ottant’anni il governo è guidato da forze politiche che spesso propongono simbologie e linguaggi provenienti da quegli anni. L’università non sembra in grado di fare i conti con la sua storia. La conferenza dei rettori ha atteso decenni prima di compiere l’atto dovuto di riconoscere le responsabilità dell’istituzione universitaria nella dinamica della legislazione antiebraica e dell’antisemitismo. Masi è trattato di una presa d’atto formale, non accompagnata da un lavoro di elaborazione culturale. Non potrebbe essere diversamente in una università in cui — al contrario che in altri paesi occidentali— la storia degli ebrei e la storia dell’antisemitismo sono materie ancillari, quando esistono. È quindi poco sorprendente il fatto che la ricomparsa di un esplicito antisemitismo all’interno delle università non solo non venga riconosciuto come tale dai vertici delle università stesse, ma in certi casi assunto come pratica esplicita. Il conformismo è stato vivo nel passato e lo è oggi, associato a opportunismi che restituiscono un’immagine a volte miserevole ed allarmante di parti di quel mondo.