24 Maggio 2024

Elena Loewenthal commenta il caso della predica islamista all’università di Torino

Fonte:

La Stampa

Autore:

Elena Loewenthal

Un incidente grave nel tempio della laicità

Che la situazione sia sfuggita di mano è soltanto un pallido eufemismo, perché quanto è successo venerdì scorso entro i confini dell’Università di Torino è ben di più, bendi peggio. E che il rettore Geuna si schermisca con l’argomento che la sede degli studi superiori piemontese è occupata, dunque al di fuori della sua giurisdizione, non aiuta certo a scendere a patti con questo grave incidente. Venerdì scorso gli studenti/occupanti hanno invitato all’Università Brahim Baya a celebrare la preghiera e il suo sermone inneggiante alla guerra santa. Constatava, anzi, che la guerra santa è in atto, condotta da uomini, donne e bambini contro i “sionisti” che hanno osato calpestare quella terra benedetta prima ancora della nabka. Com’è possibile che in una istituzione laica per definizione degli studenti che protestano in nome di una loro visione del progresso – civile, politico, sociale – decidano che la preghiera di una certa confessione abbia spazio e quasi tutto il resto no? Università non dovrebbe significare “universalità”? Dialogo? O forse fa molto, troppo più comodo a questi studenti (che detto fra parentesi non sono tutti e forse neanche la maggioranza, però occupano e dettano legge), semplicemente scimmiottare quanto accade negli atenei d’oltre oceano, giusto o deprecabile che sia? E quindi, dopo aver scrollato qualche video sui social, hanno deciso che anche a loro spettava la preghiera islamica, così da far schizzare le visualizzazioni? E poi c’è il sermone dell’imam Baya. Perché, va detto, l’islam è una realtà complessa, ricca di opinioni e approcci diversi. Tutt’altro che un monolite, come spesso si è tentati di pensare. E anche nel nostro territorio ci sono imam conservatori e altri progressisti, e ci sono molti modi diversi di sentire, esprimere e comunicare la propria fede islamica. Il sermone di venerdì scorso all’Università di Torino (che già scrivere questa frase per esteso – e rileggerla – fa rizzare i capelli in testa per la sua incongruità di fondo: dov’è finita la nostra società laica e pluralista?) era tutt’altro che un discorso di pace, di fede, di spiritualità. Ricco di iperboli infuocate- “la Palestina resiste a una furia genocida uscita dalla peggiore barbarie della storia” – invitava coloro che ancora non lo stanno facendo a “usare le mani” e contribuire alla lotta di “liberazione” di una terra che i sionisti hanno osato “occupare” ben prima che, per decisione votata a maggioranza dalle Nazioni Unite nascesse lo stato d’Israele (e sarebbe dovuto nascere anche uno stato palestinesi, se il fronte arabo non avesse opposto il suo rifiuto). Nella migliore tradizione di cui l’Iran degli ayatollah è ormai quasi l’unico erede, l’imam non nomina mai Israele. Come ripeteva Amos Oz, il conflitto fra Israele e i palestinesi è una tragedia perché è un confronto non fra un torto e una ragione bensì fra due ragioni. Quanto è accaduto all’interno dell’Università di Torino venerdì scorso è l’ennesima testimonianza di uno scollamento sempre più grande fra i sacrosanti diritti dei due popoli a un futuro vivibile e delle proteste sempre più avulse dalla realtà, dalla complessità di questo conflitto. Questi episodi nelle Università, le urla di chi sbraita “dal fiume al mare” senza alcuna cognizione geografica, storica e politica, sono sempre più lontani dalla tragedia in corso che israeliani e palestinesi – vittime entrambi – subiscono. Il fatto che il rettore declini ogni responsabilità perché l’Università di Torino è sotto occupazione – dunque non è più un bene comune, pubblico, aperto-, aggrava ulteriormente il quadro.

Photo Credits: La Stampa