Fonte:
La Stampa
Autore:
Elena Loewenthal
Gli stereotipi meglio lasciarli al genio di Shakespeare
«Ah, voi ebrei siete tutti (più) intelligenti» è una frase che, per quanto corazzata delle migliori intenzioni, mette i brividi. Non tanto perché è inattendibile – il campionario di figli d’Israele poco dotati di materia grigia è di tutto rispetto – quanto perché è uno stereotipo bello e buono e gli stereotipi sono insidiosi per definizione: far di tutt’erba un fascio è il primo passo verso il pregiudizio. È pur vero che il pregiudizio ha quasi sempre un sottofondo di attinenza che va riconosciuta proprio per contrastarlo: in questo caso, la tradizione impone agli ebrei lo studio e prima ancora l’alfabetizzazione, che sono sistemi impagabili per tenere la mente in esercizio. È una questione di Dna culturale e non biologico. Così anche quella spiacevole circostanza per cui alla voce “ebreo” i dizionari (almeno fino a poco tempo fa) segnavano anche una generosa serie di sinonimi della parola “avaro” ha una radice storica: per secoli agli ebrei è stata imposta come pressoché unica professione quella del prestito su pegno o a interesse – perché ai cristiani era proibita. Associare l’ebreo al denaro contante è dunque un retaggio antico. Ma di qui al simpatico pensiero che «Solomon fa l’usuraio dopo aver scoperto Dio», come scrive Bernardo Zannoni nella sua bella storia di faine, maiali, volpi, I miei stupidi intenti (Sellerio) che ha vinto il Premio Campiello, ne passa. Maneggiare gli stereotipi è una faccenda complicata e delicata. Nella favola di Zannoni tutto si gioca sull’allegoria, sulla libera associazione e soprattutto sulla libertà del lettore di immedesimarsi, prendere le distanze, sorridere. E se due indizi, magari pure tre, non fanno ancora, per carità, nessuna prova, fra queste pagine un pizzico di olezzo, una «piccola macchia» come quella con cui l’usuraio Salomon «segnava tutto quello che vendeva», vagamente s’intravede. Prima di tutto per la quantità di riferimenti – gli ebrei che picchiano gli infedeli, la spietatezza dell’usuraio, la sua smania per gli affari. Che certo, non sono prove e nemmeno indizi ma soltanto piccole, diafane ombre. Però. Però il fatto è che il pregiudizio o lo cavalchi o lo decostruisci. Delle due, l’una. Non è dato depositarlo così, con nonchalance e la speranza – o forse l’incoscienza – che passi inosservato: è materia da maneggiare con cura o meglio lasciar perdere. Mentre qui, in questo libro, la faccenda sembra un po’ sfuggita di mano al suo talentuoso autore, forse proprio perché – ha detto lui – ha «sempre provato fascino per l’ebraismo» (frase un po’ sibillina, per non dire incongrua). Perché purtroppo, e questo vale per tutti i pregiudizi, non solo per un presunto, dichiarato o negato antisemitismo, trattarli con disinvoltura o indifferenza è un modo tossico per farli circolare. Così alla fine del romanzo quel retrogusto di insofferenza per l’usuraio Solomon e la sua schiatta preferita da Dio ma detestata dagli altri animali resta lì, sospeso sul dubbio del pregiudizio. E sulla certezza che val meglio lasciarlo nelle mani di uno del calibro di Shakespeare e del suo sublime Shylock.