Fonte:
La Stampa
Autore:
Elena Loewenthal
Il 25 aprile senza la Stella di David
Fuor di ogni retorica dovrebbe essere (ma non è) il momento dell’anno civile più condiviso, quello che più segna la nostra comune identità da quel giorno del 1945 in poi. La festa della Liberazione è davvero memoria di salvezza, di un nuovo inizio dopo ventidue anni e passa di dittatura fascista. Purtroppo non è affatto così, per diverse ragioni. Prima di tutto perché negli ultimi anni, forse decenni, si è andata via via spegnendo la portata educativa del 25 aprile: fino a tutti gli anni Ottanta quel giorno era al centro dell’anno scolastico, nel vero senso della parola. Si studiava, cantava e festeggiava la Liberazione come fosse – come è – roba nostra, di quelle giovani generazioni sui banchi di scuola, nate all’indomani della fine della guerra. E poi perché a poco a poco, con lo spegnersi a loro volta delle voci dei testimoni, di quelle donne e quegli uomini che la Resistenza l’avevano fatta, combattuta e vinta, quel giorno ha perso la sua forza emotiva e ne ha purtroppo, acquisita una politica. Anzi demagogica. E diventato un puro manifesto, l’occasione per parlare d’altro, per urlare e bandire. Per una strumentalizzazione che nulla ha più a che fare con l’immenso vissuto vero del 25 aprile 1945. Con quella storia di armi e coscienza, di morte e di vita. Così, quest’anno, a titolo comprensibilmente “precauzionale” la comunità ebraica di Milano ha deciso che parteciperà al corteo senza gonfalone. Chi vorrà ci sarà a titolo personale, con le “sole” insegne della Brigata Ebraica. Per quell’aggettivo il virgolettato è d’obbligo: perché questo è precisamente il tema tanto divisivo quanto assurdo che ormai da anni sfigura la ricorrenza del 25 aprile, la trasforma in una parata di oltranzismi e cecità storica. La Brigata Ebraica, va precisato, fu un corpo militare dell’esercito britannico (cioè, per intenderci, gli Alleati) formatasi nel 1944 e composta di ebrei palestinesi in quel territorio che allora si trovava sotto un governo mandatario inglese provvisorio che di lì a pochissimo avrebbe lasciato spazio a due stati palestinesi, come sancito nel novembre del 1947 dalle Nazioni Unite – uno arabo palestinese e uno ebraico palestinese – se il fronte arabo non avesse rifiutato tale soluzione. Così, invece, è nato lo stato palestinese ebraico, cioè Israele. La Brigata Ebraica ha avuto un ruolo non indifferente nella guerra di liberazione in Italia, da Taranto in su. Ha lasciato il suo tributo di morti e di vivi. È parte della nostra storia, in quegli anni. Eppure da tempo la sua presenza di partecipazione e di memoria è contestata, sbeffeggiata negata. Anche, e non di rado, violentemente. Tutto ciò ha un che di incongruo e ingiusto alla radice, eppure è così. Così, nella ricorrenza di una liberazione che tutti ci riguarda, nell’omaggio memoriale a chi ci ha salvato, chi ha aperto per noi le porte della democrazia, chi ha fatto piazza pulita del nazifascismo, il contributo della Brigata Ebraica non trova spazio, anzi viene sentito come un affronto. Le è negato, in sostanza, quel diritto di memoria sul quale tanto insiste la nostra educazione civile. Manipolando dunque una memoria che si permette di espungere simboli e storie non graditi, è facile trasformare la ricorrenza della liberazione in uno strumento di propaganda, nella più totale indifferenza e/o ignoranza della sostanza che quel passato dovrebbe rappresentare per tutti noi: il cuore della nostra identità. Così, ogni anno sorge la necessità imprescindibile di creare uno slogan buono per (quasi) tutti i gusti, che sempre meno ha a che fare con quel contesto storico. E l’Anpi, l’associazione nazionale di partigiani che non ci sono quasi più perché il tempo passa e le voci dei testimoni si spengono, incespica puntualmente in matasse di demagogia, mentre forse dovrebbe impegnarsi di più nel rispetto della memoria, nella “manutenzione” di quei valori primari che la Resistenza ci ha permesso di enunciare e vivere giorno per giorno, da quel 25 aprile del 1945 grazie al quale siamo qui. Tutti.