Fonte:
Osservatorio antisemitismo
Autore:
Alberto De Antoni
Kazimierz Sakowicz, Diario di Ponary. Testimonianza diretta del genocidio ebraico in Lituania, 1941-1943, Mimesis, Milano, 2021
Il giornalista polacco Kazimierz Sakowicz si trovò a porre casualmente la propria residenza a Ponary, un sobborgo di Vilnius, poco dopo l’invasione sovietica della Lituania del 1939. Con la successiva invasione nazista dell’Unione Sovietica Ponary divenne il luogo d’esecuzione della comunità ebraica di Vilnius, la “Gerusalemme dell’Est”. Nelle profonde fosse scavate dall’aviazione sovietica per contenere dei serbatoi di carburante furono assassinati circa 60.000-80.000 uomini e donne membri della comunità ebraica locale, di quelle circostanti e qualche migliaio di partigiani o semplici ostaggi sovietici e polacchi.
Dal 1941 al 1943 lunghe colonne di esseri umani, in un primo momento solo uomini in età di lavoro, successivamente anche donne e i bambini, furono condotte con l’inganno nella boscaglia sul ciglio delle fosse dove, costrette a spogliarsi, venivano quindi uccise a colpi d’arma da fuoco. Analoghi massacri avvennero con simili modalità un po’ ovunque in tutto il territorio occupato dell’Unione Sovietica in quella prima fase della Shoàh caratterizzata ancora dal rapporto diretto tra carnefice e vittima ed eseguita con armi da fuoco. Gli esecutori erano membri di squadre speciali (Einsatzgruppen) dello SD (Sicherheitsdienst), il servizio di sicurezza delle SS, assistiti da milizie fasciste reclutate tra la popolazione locale. Uno dei luoghi più noto di tali eccidi è sicuramente quello di Babij Jar presso Kiev dove nel luglio del 1941 circa 30.000 ebrei della città furono assassinati. I Paesi baltici ricordano invece Rumbula in Estonia e, appunto, Ponary in Lituania.
Sin dalle prime esecuzioni Sakowicz iniziò a prendere appunti annotando con concisione il numero delle vittime, gli episodi di omicidio cui assistette e le testimonianze di conoscenti o di vicini di casa. Le annotazioni, redatte su materiale su materiale di fortuna, furono quindi di volta in volta inserite in bottiglie di limonata e sepolte sotto terra. La documentazione, nelle intenzioni dell’autore, nazionalista polacco, avrebbe molto probabilmente dovuto costituire il materiale probatorio per un atto d’accusa nel dopoguerra contro i collaborazionisti lituani. Così non è stato per la morte dell’autore, morto nei boschi nella primavera del 1944, ucciso casualmente da una pallottola negli scontri tra l’Armata Rossa avanzante e la Wehrmacht in ritirata. A ciò s’aggiunge il fatto che gli scritti, recuperati dalla moglie, subirono tutta la censura politica che accompagnò la storia dell’Europa orientale. Le autorità sovietiche non gradirono che le vittime per eccellenza del nazismo fossero ebrei e il governo lituano, sia quello della pur limitata autonomia interna alla federazione sovietica sia quello dell’indipendenza ottenuta negli anni Novanta, mirò a tener nascosto il ruolo svolto dalle feroci milizie locali. Sembra pure che non tutta la documentazione sia stata recuperata, mancando il periodo intercorrente tra il 1943 e il 1944, ma è pressoché certo che sia andata perduta.
Nonostante ciò, quest’ulteriore testimonianza s’aggiunge a quella terribile corrente letteraria del Novecento che è riconducibile in un modo o nell’altro alla Shoàh, in questo caso ai dolorosissimi scritti redatti da persone convinte di non sopravvivere alla guerra se non per puro caso. Tra questi si ricordano, ad es., il diario del ghetto di Varsavia (Sepolti vivi di Emanuel Ringelblum) o le righe tremende di un membro del Sonderkommando di Auschwitz (Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz 1944 di Salmen Gradowski). Gli scritti di Sakowicz si avvicinano piuttosto al Libro nero, alla raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti raccolta da Vasilij Grossman e Il’ja Erenburg, con una particolare eccezione: si tratta di una delle rarissime descrizioni degli omicidi nazisti scritte da un non ebreo. Tale particolarità si nota quando l’autore stigmatizza il ruolo dei partigiani russi-sovietici come banditismo e si sofferma talvolta sulla mancanza di dignità delle vittime ebree – benché l’immagine delle madri che in ginocchio supplicano i carnefici di risparmiare i propri bambini debba essere letta piuttosto in un’altra ottica.
Curiosamente, il fatto che le annotazioni non abbiano subito una redazione definitiva e si presentino nella loro nuda registrazione rende il diario di Sakowicz molto simile al tono dei cronisti medievali che senza commento scrivevano dei pogrom come di un avvenimento normale. Se Ponary debba essere letto in questo contesto o come la conclusione di una frattura storica iniziata un millennio prima o di un’eccezione terribile nel pur tragico antisemitismo europeo rimane comunque la domanda sullo sfondo.
La traduzione italiana, appena uscita per i tipi di Mimesis e compiuta dall’edizione inglese, riporta la prefazione di Yithzak Arad, importante storico della Shoàh dell’Europa orientale, che contestualizza Ponary all’interno della politica d’occupazione nazista e del collaborazionismo lituano, e l’introduzione di Rachel Margolis, scappata dal Ghetto di Vilnius e partigiana nei boschi, in seguito direttrice della sezione storica del Museo Nazionale Ebraico di Lituania.