Fonte:
Il Foglio
Autore:
Nicoletta Tliacos
Nel cuore di Edgardo, rapito e costretto a cancellare se stesso come ebreo
Spielberg ci ha pensato a lungo e poi ha rinunciato al progetto, ma alla fine la storia di Edgardo Mortara – il piccolo ebreo bolognese sottratto alla famiglia nel 1858 per ordine di Papa Pio IX, in nome del fatto che una domestica cristiana lo aveva battezzato di nascosto – è diventata un film. Si intitola “Rapito”, arriva oggi in concorso a Cannes e il regista Marco Bellocchio lo ha liberamente tratto dal libro del giornalista e scrittore Daniele Scalise, “Il caso Mortara”, uscito nel 1997 e appena aggiornato e ripubblicato negli Oscar Mondadori. Sulla vicenda che all’epoca interessò le cancellerie di mezza Europa e i giornali di tutto il mondo, che ha segnato gli ultimissimi e tumultuosi anni di agonia del potere temporale del Papa e ha allungato la propria ombra fino alle polemiche sulla beatificazione di Pio IX voluta da Giovanni Paolo II, sembra ormai essere stato detto e scritto davvero tutto. Ma il romanzo che sempre Scalise ha ora dedicato al caso Mortara (“Un posto sotto questo cielo”, Longanesi, 252 pagine, 16,90 euro) prova a esplorare per la prima volta uno spazio forzatamente negato alla semplice e fredda ricostruzione storica. E’ lo spazio del dolore senza fine e della fine del mondo attraversata da una famiglia e soprattutto da un bambino di sei anni, figlio di un modesto mercante ebreo di passamanerie, che i gendarmi dello Stato pontificio letteralmente strappano dalle braccia della madre, in una tranquilla sera di giugno, perché hanno l’ordine di portarlo a Roma, dove dovrà essere educato cristianamente. E’ lo spazio dell’impossibilità per quel bambino (che passerà dieci anni senza mai più rivedere madre e padre, dopo un primo brevissimo incontro concesso a un mese dal rapimento), poi diventato convintamente cattolico e sacerdote intransigente, di trovare davvero “un posto sotto questo cielo”. Un posto che corrispondesse a un luogo pacificato e riconosciuto dentro di sé, fuori dal conflitto di cui proprio lui, Edgardo Mortara, era stato incolpevole campo di battaglia, e che rimanda fatalmente a quell’altro spazio, tanto lungamente negato agli ebrei: quello di una cittadinanza non dimezzata, della libertà di culto e di piena espressione di ciò che si è. A nulla valse che la famiglia Mortara fosse onesta, stimata e osservante delle leggi degli uomini nella Bologna ancora papalina: il marchio indelebile del loro essere giudei autorizzava l’arbitrio più atroce, la sottrazione di un figlio bambino. C’era la parola della domestica cristiana, Nina Morisi, licenziata a seguito di certi piccoli furti, che parlò di un battesimo segreto da lei somministrato mentre Edgardo aveva poco più di un anno e mezzo e si trovava, spiegò la donna, in pericolo di vita per una malattia. Non sempre, in casi simili, si procedeva alla sottrazione dei piccoli ebrei, perché il diritto canonico in materia è cambiato più volte e perché c’era la valutazione caso per caso. Ma il battesimo clandestino del piccolo Mortara, nello Stato pontificio accerchiato e morente, divenne per Pio IX “una circostanza fenomenale a conferma della santità del suo regno e dell’invulnerabilità del potere che incarnava”. Talmente fenomenale che anche le pressioni delle cancellerie degli stati cattolici e amici, come la Francia dell’epoca, ottennero solo l’effetto di irrigidire il Papa: il bambino nato ebreo era diventato una bandiera, e nemmeno dopo l’unità d’Italia la famiglia ne poté ottenere la restituzione. Più tardi, quando divenne possibile per lui liberarsi dalla costrizione, Edgardo annunciò di voler rimanere cristiano e di non voler tornare alla famiglia, e prese gli ordini. Il valore aggiunto del romanzo di Scalise – il cui intreccio, fin dalla scansione e dal titolo dei capitoli, volutamente ricorda i romanzi d’appendice ottocenteschi e la loro scuola narrativa – è la capacità di entrare nella testa, nel cuore e nelle motivazioni di tutti i personaggi, operazione possibile solo a partire dalla padronanza assoluta dell’autore rispetto ai documenti, ai verbali degli interrogatori, agli scritti, a decine di articoli dell’epoca e alla corrispondenza intorno al “caso Mortara”. Il romanzo segue Edgardo, diventato padre Pio Edgardo Mortara, predicatore zelante fortemente impegnato nella conversione degli ebrei, ne descrive la paura che non lo abbandonò mai dalla sera del rapimento, la sofferenza sfociata in mania di persecuzione, le crisi di rabbia e di dolore, infine la scelta di chiudersi per trentacinque anni in un convento a Liegi, dove morirà nel funesto marzo 1940, mentre il suo popolo attraversava in tutta Europa la più crudele delle prove. Ma se padre Pio Edgardo aveva cancellato se stesso come ebreo, il mondo non aveva dimenticato la sua origine. Forse nemmeno l’abbazia di Bouhay riuscì davvero a essere il suo posto sotto questo cielo, e se Scalise non ha potuto dare al suo “romanzo Mortara” un lieto fine, ha però immaginato qualcosa che assomiglia, a suo modo e finalmente, alla conquista della libertà.