Fonte:
https://espresso.repubblica.it
Autore:
Simone Alliva
La campagna elettorale dell’odio: in tre mesi 671 casi di discriminazioni e violenze
Crescono le aggressioni fisiche e verbali, a sfondo razziale o omofobico, nel nostro Paese. Perché i toni violenti della propaganda di Destra si riflettono nella vita di tutti i giorni
«Pronto, sono stato aggredito», dall’altro capo del telefono la voce è rotta dalle lacrime e dalla paura. Il vaso di pandora si apre così. Prima di guardarci dentro però bisogna leggere i dati. Incrociarli. Verificarli. I numeri non sono la misura esatta di quello che c’è fuori ma aiutano a mettere a fuoco cosa sta succedendo tutto attorno a noi. E dentro di noi.
L’Espresso ha analizzato in esclusiva i dati raccolti dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri.
Soltanto negli ultimi tre mesi (da maggio a luglio) si registrano 671 episodi di discriminazioni, 457 avvenuti in luogo fisico. Mentre 214 sono minacce e insulti che viaggiano attraverso la Rete. L’odio di una campagna elettorale – iniziata con le prime crepe al governo Draghi e ufficializzata a fine luglio – lievita nel Paese reale. Bisogna distogliere lo sguardo dai video di una politica ferma ai challenge su TikTok e rivolgerlo alle cronache locali: dall’invito alla «riapertura dei forni» per gay, ebrei e rom alle persone trans suicide, dalle coppie lesbiche massacrate perché si tenevano per mano al «vietato l’ingresso ai neri» in piscina. Dagli insulti ai calci, dalle offese alle aggressioni. Razzismo, omotransfobia, antisemitismo. Sono 209 le persone aggredite in quanto “stranieri”, 45 per il colore della pelle, 126 gli episodi di omotransfobia, 54 di antisemitismo.
I numeri dell’odio raccolti dall’Unar – segnalazioni pervenute attraverso i diversi canali come numero verde 800 901010, e-mail, sito web – non riescono tuttavia a portare in superficie la campagna di caccia al “diverso” che si è intensificata in soli novanta giorni. Il sommerso non emerge neanche con l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), istituto presso il ministero dell’Interno, al quale vengono inviati le segnalazioni di reati subiti in relazione alla razza/etnia, credo religioso, orientamento sessuale e identità di genere.
Le rilevazioni dell’Oscad vengono abitualmente citate allo scopo di rappresentare il fenomeno dell’odio come marginale, di cui si contano pochissimi casi e quindi certamente non di dimensioni preoccupanti. Una lettura strumentale e pregiudiziale.
L’Oscad non raccoglie notizie di reato, ma segnalazioni ulteriori che la vittima può decidere di inviare, oltre e separatamente alla presentazione della denuncia presso l’autorità di prossimità (polizia o carabinieri), prima o dopo avere sporto regolare denuncia o querela per il reato subìto. Un fenomeno di under-reporting ben specificato da tutti i documenti del dipartimento. Sulla pagina web del ministero dell’Interno dedicata al monitoraggio dei crimini d’odio si legge: «I dati relativi alle segnalazioni Oscad non consentono di valutare il fenomeno dei crimini d’odio da un punto di vista statistico». O ancora: «I dati comunicati non forniscono un quadro avente valore statistico sul fenomeno in Italia: incrementi e diminuzioni dei dati comunicati non sono correlabili con certezza a una proporzionale variazione dei crimini d’odio nel Paese».
Difficile anche fare una classifica delle città che registrano più casi di discriminazioni. A voler prendere una cartina dello Stivale e appuntare in ogni singola città una denuncia, una violenza, un episodio discriminatorio si ottiene un Paese frammentato che non rispecchia il dualismo Nord-Sud, ossia la contrapposizione tra un Nord progredito e un Sud arretrato, è un approccio che non sta in questa Italia attraversata dall’odio verso il “diverso”.
A Pordenone a due ragazzi di origine marocchina che frequentano un istituto superiore della zona di Sacile, viene rifiutato l’accesso all’alternanza scuola-lavoro in più di una azienda, diversamente da tutti i loro compagni, a causa delle loro origini. Mentre Porpora Marcasciano, attivista storica lgbt, viene aggredita con un coltello il 24 agosto, su una spiaggia della costa Adriatica, due di pomeriggio. È lei stessa a raccontarlo: «Frequento quella spiaggia da dieci anni. Il branco si è violentemente palesato senza darmi il tempo e il modo di pensare alla fuga. Venti minuti di terrore, in balia di cinque balordi. Il capo branco ha cominciato in modo soft, quasi gentile ad avviare un discorso che diventava man mano sempre più brutto, minaccioso, violento. Il gergo era quello omofobo con tutti gli epiteti che risparmio. Poi il brutto ceffo si è avvicinato, quasi a toccarmi e con un coltello continuava a ripetere che appena lo avessi sfiorato mi avrebbe tagliato la gola. Cercava l’appiglio ed io ero certa, certissima che lo avrebbe trovato da lì a poco. Non so dire ancora oggi a distanza di sei giorni cosa mi abbia permesso di essere qui a raccontarlo».
Il candidato del Pd a Sesto San Giovanni, Emanuele Fiano, viene preso di mira dall’odio antisemita. Scritte sono apparse sui muri della Sapienza di Roma contro il deputato dem, figlio del sopravvissuto di Auschwitz, Nedo Fiano. È un filo nero che corre dentro questi giorni di campagna elettorale. Eppure, il tema non è, ancora oggi, l’odio. Non è la spaventosa assuefazione a un linguaggio e a un comportamento violento che si fonda sulla paura dell’invasore straniero o del gender nelle scuole. Sul nero che ti toglie il lavoro e che violenta le tue donne. Sul gay che vuole corrompere i tuoi figli o farti chiamare “genitore 1”, “genitore 2”.
«Ho subito due episodi di razzismo molto violento in ambito lavorativo, entrambi durante una campagna elettorale. Prima nel 2018, quella più recente ad agosto». Racconta Nandi Ngaso nato in Camerun, è arrivato in Italia a 19 anni. Ha studiato, si è laureato in Medicina e chirurgia, ha lavorato con la Croce Rossa per anni e infine ha deciso di dedicarsi alla medicina d’urgenza. Noto alle cronache per aver denunciato un’aggressione razzista al punto di primo soccorso di Lignano, in Friuli-Venezia Giulia. «Preferivo due costole rotte che farmi visitare da un negro», gli ha urlato contro un paziente arrivato nel cuore della notte con fratture multiple a causa di una rissa. «Ogni parola violenta di un politico arma un cittadino in un modo o nell’altro. Pensiamo al video di Giorgia Meloni che durante un comizio spiega che si dovrebbe fare una vera e propria selezione di migranti prediligendo quelli in Venezuela perché bianchi. Oppure a quello in cui Salvini e Meloni parlano di “sostituzione etnica”. Questo è il linguaggio che attraversa la mia vita. Se mi trovo davanti una persona che mi aggredisce in quanto nero e musulmano, questa è la grammatica che usa. Per usare un’espressione cara alla leader di Fratelli d’Italia: la matrice è chiara».
Per Cyrus Rinaldi, professore associato di Sociologia del diritto della devianza e mutamento sociale al dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo «le recenti campagne politiche (tra cui Ungheria, Polonia, Turchia, Usa, Russia, Filippine, Brasile e adesso l’Italia) hanno sfruttato le emozioni di chi “si sente lasciato indietro”, promuovendo una nostalgia per un passato nazionale immaginato e contrapponendosi a nemici interni (le élite) e nemici esterni (nazioni, organizzazioni sovranazionali,) ed individuando “altri” non degni di riconoscimento (femministe, Lgbtqi+, membri di minoranze etniche e comunità migranti). Gran parte delle rivendicazioni dei partiti di destra (“sono una donna, sono una madre, sono cristiana” è uno dei leimotiv che rimbomba maggiormente) trasformano in istanza politica il risentimento e il senso di rivalsa “naturalizzando” i confini di genere e sessualità, una retorica ideologica che fa di questa “compattezza” in sé una arma, una motivazione politica in sé e per sé, una naturalizzazione delle rivendicazioni politiche».
Il mantra di una politica pura, identitaria, relazionale e nazionale (la famiglia eterosessuale, i ruoli “naturali” di uomini e donne, l’integrità territoriale e la sovranità nazionale) è pericolosissimo perché immette nel linguaggio e nell’agire comune parole e gesti indecenti, spiega Rinaldi: «Si tratta di un fenomeno noto nelle scienze sociali e che sostiene che gli individui siano motivati a mantenere un’identità sociale positiva e lo fanno confrontando lo status dei gruppi con cui si identificano con quello di altri gruppi. Quando, per via della presenza di altri gruppi “concorrenti”, alcuni percepiscono che il proprio status privilegiato è sottoposto a “minaccia” sperimentano forme frustrative che sfociano verosimilmente in forme di pregiudizio, aggressività e violenza.
La minaccia dello status di gruppo predice un aumento della discriminazione nei confronti dei gruppi “outsider” e prevede che l’aumento delle differenze rappresenti una minaccia per i bianchi etero-cis, una minaccia reale alle loro “risorse” e, al contempo, una minaccia simbolica per i loro “valori”. In questo modo compiere violenza – dai crimini di odio alle parole di odio – significa partecipare a messinscene in cui l’individuazione di vittime ha sia l’obiettivo che l’effetto drammaturgico di rafforzare l’identità e i valori egemonici degli aggressori, riportando tutto alla “normalità” ».