Fonte:
Repubblica
La cosiddetta “apologia di fascismo” è stata introdotta dalla legge Scelba, la numero 645 del 20 giugno 1952. Una norma che però, va detto subito, si occupa di punire chi tenta di ricostruire il vecchio partito fascista e non tanto chi lo difende o esprime opinioni favorevoli al fascismo.
Il discrimine: rifondare il fascismo
Cosa significa voler ricostituire il partito fascista?
Lo dice l’articolo 1: «Quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista».
La legge fu approvata nel 1952 per attuare la XII disposizione finale della Costituzione, dove per l’appunto si proibisce la ricostruzione del partito fascista. L’articolo 4 della legge Scelba rende perseguibile anche chi «esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche», e si rischia dai sei mesi ai due anni di reclusione, oltre che una multa da 206 a 516 euro. Dopodiché varie sentenze della Cassazione hanno ridotto notevolmente il perimetro in cui applicare la legge Scelba.
I pronunciamenti della Corte Costituzionale
Negli anni successivi alla sua approvazione, la legge Scelba venne immediatamente utilizzata contro diversi esponenti del Msi, partito primogenitore di Fratelli d’Italia e fondato da reduci del fascismo. Non li si accusò tanto di voler rifare il partito fascista (articolo 1), ma appunto di “apologia di fascismo”. Ma gli imputati dissero che l’articolo 4 della legge era in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di espressione. Il tribunale di Torino, uno dei tre che si stavano occupando dei processi, trasmise il rilievo alla Corte Costituzionale. La sentenza della Corte Costituzionale è del gennaio del 1957 e stabilì che la legge Scelba non violava la Costituzione. Ma allo stesso tempo precisò il significato dell’articolo 4: per esserci una vera e propria apologia di fascismo non è sufficiente che ci sia «una difesa elogiativa» del vecchio regime, ma occorre «una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista».
Nel dicembre del 1958 una seconda sentenza della Corte Costituzionale fornì una simile precisazione anche per l’articolo 5 della legge Scelba (“chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da duecentomila a cinquecentomila lire”). La Corte stabilì che le manifestazioni erano vietate, ma solo nel caso in cui fossero propedeutiche alla ricostruzione del partito fascista.
Le interpretazioni della legge Scelba stabiliscono quindi che finché un giudice non appura che è in corso un tentativo di fondare un nuovo partito fascista, è legittimo fare praticamente qualsiasi cosa, sempre a patto di poter dimostrare di non stare ricostruendo l’antico partito fascista e di non avere i suoi obiettivi antidemocratici.
L’evoluzione: il decreto legge Mancino
Nel 1993 il governo di Giuliano Amato approvò un decreto legge che tentava di restringere le possibilità di fare propaganda ed esporre simboli fascisti. Il “decreto Mancino”, convertito con modificazioni in legge 25 giugno 1993 e dal nome dell’allora ministro dell’Interno, è la principale legge italiana contro l’incitamento all’odio e alla discriminazione. In Parlamento il Msi, che si stava trasformando in An, si astenne.
La legge stabilisce le aggravanti per i reati commessi con finalità razziste o discriminatorie, e punisce «chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi», proibisce di creare organizzazioni ispirate a questi valori e impone il loro scioglimento.
La legge enuncia poi il divieto esibire bandiere, slogan o altri simboli di organizzazioni violente o discriminatorie durante gli eventi sportivi, e modifica l’originale legge Scelba per rendere più chiaro il divieto di fare propaganda al fascismo. Tra parentesi: nel 2014 la Lega Nord ha proposto un referendum per abolirla. Dopodiché la legge Mancino vive lo stesso “stallo” di quella Scelba, per cui sono i giudici di volta in volta a decidere se applicarle o se stabilire che l’episodio o gli episodi in questione siano tutelati dall’articolo 21.
Il saluto romano
Periodicamente al centro del dibattito ci sono sentenze di tribunali che assolvono, oppure condannano, persone che fanno il saluto fascista in luoghi pubblici. Le interpretazioni più diffuse negli ultimi anni sulla normativa vigente stabiliscono – e qui torniamo al senso delle leggi – che non è reato fare un saluto fascista se non c’è il pericolo di riorganizzazione di un nuovo partito fascista o del perseguimento di finalità antidemocratiche e discriminatorie. Ma appunto: chi può certificarlo (o meno) di volta in volta?