Fonte:
Il Messaggero
Autore:
Mario Ajello
Chi orienta la coscienza dei giovani in piazza
Tra Kiev e Hamas
I cortei studenteschi pro Palestina in questi giorni si susseguono, e ormai sono una costante del paesaggio italiano. Viene da chiedersi perché i nostri giovani, o almeno quelli più politicizzati e visibili, siano in larghissima maggioranza di sentimenti contrari a Israele e, nel caso della guerra in Ucraina, tutt’altro dalla parte degli aggrediti e molto sensibili alle ragioni (in fondo è colpa della Nato) degli aggressori russi. Una sorta di pensiero comune attraversa la Generazione Z ed è un pensiero che si alimenta di parole assai impegnative e altisonanti: il Genocidio (quello ai danni del popolo di Gaza), la Pace (quella che va raggiunta a tutti i costi anche se favorevoli alla logica di Putin). Sembra esserci poca attenzione giovanile, nelle mobilitazioni di questi giorni e nelle altre che verranno, alla difesa della libertà e dei diritti dei popoli ad essere liberi (anche da Hamas). I ragazzi, che sono il patrimonio del futuro, potrebbero usare le loro intelligenze per stimolare le classi dirigenti a fare di più e meglio nelle crisi internazionali in corso. Invece accade, ma mai generalizzare, che portano radicalismo nel dibattito pubblico già di per sé agitatissimo. Le ragioni di questo atteggiamento unilaterale sono varie. C’è in esso il peso della tradizione intellettuale che domina nelle scuole e nelle università e che è abituata a fare della questione palestinese un totem, un simbolo a cui approcciarsi senza sfumature e senza calcolare il mutamento delle condizioni storiche (si è fermi ai palestinesi com’erano negli anni `70, laici e di sinistra, ma intanto sono arrivati Hamas, Hezbollah e altri fondamentalisti islamici). Esiste una parte della classe docente e diverse generazioni di genitori che per facilità e presunta bonarietà non prende di petto le semplificazioni e i deficit di conoscenza dei ragazzi («Figlioli miei, marxisti immaginari» era il titolo di stupendo libro di Vittoria Ronchey sul conformismo di sinistra post-sessantottesco che andrebbe ripubblicato e riletto) e rinuncia a svolgere il proprio faticosissimo compito: informare-informare-informare. Si preferisce invece proteggere i propri ragazzi (basta frequentare qualche cena di genitori per accorgersene e restare sbigottiti) nel loro recinto di presunte certezze sul mondo, arrivando perfino a compiacersi delle pose combat con kefiah al collo in ricordo dei propri trascorsi (siamo stati tutti così, ed evviva la giovinezza e la bellezza dell’immaturità!). L’atteggiamento dei giovani pro Palestina dipende anche dalle fonti d’informazione che frequentano. Pochissimi ragazzi leggono i giornali. Osservano il mondo attraverso lo smartphone e comprendono l’attualità per lo più attraverso frammenti di video. Nei quali abbondano quelli più estremi e più pieni di disprezzo per Israele (da qui anche i rischi di un nuovo anti-ebraismo diffuso e generalizzato anche presso i giovani non appartenenti a gruppi estremi di destra odi sinistra). Si tratta insomma di una generazione di giovani più turbati dal cambiamento climatico che dal clima di odio che sta infiammando il mondo e di cui loro preferiscono vedere solo una parte. I social semplificano, attizzano le tifoserie, sono – quando vengono usati male, e questo accade spesso – disinformativi in un contesto, la guerra in Medio Oriente o quella ai confini della Ue, in cui serve un surplus di concentrazione sulle cose che si dicono, si vedono e si fanno vedere. I Millennials sono cresciuti con le uniche immagini e voci dei campi di battaglia trasmesse dai telegiornali. Non c’erano i social, non c’erano gli smartphone, non c’erano Twitter anzi X. I racconti arrivavano dai giornalisti presenti sul fronte. Così si vissuto per esempio il conflitto in Jugoslavia degli anni `90, a pochissimi chilometri dai nostri confini. Così è stato anche – pur essendo già realtà ma non dominante i social Facebook e YouTube – nelle guerre in Afghanistan e in Iraq. Il racconto di gran lunga principale era ancora quello televisivo e dei media tradizionali. I ragazzi di oggi invece hanno accesso in presa diretta ai conflitti in corso. Li raccontano e se li fanno raccontare senza filtri e tra un trend e l’altro e l’aspetto propagandistico, di una propaganda a senso unico che si auto-alimenta, rischia di creare un pensiero omologato che è l’opposto della complessità di approccio che richiedono le guerre. C’è insomma, nella retorica del Free Palestine, un problema di fonti informative dei giovani e un problema che richiama la cultura politica di molta intellighenzia italiana, ma non solo italiana, orientata al terzomondismo e alla critica continua all’Occidente ritenuto sempre il peggiore responsabile di tutto. Dal punto di vista culturale, sosteneva Joseph Schumpeter, il sistema capitalista ha realizzato due primati: il primo è che nessun altro sistema nella storia umana è riuscito a creare così tanti intellettuali; il secondo è che nessun altro sistema ha fatto crescere così tanti intellettuali schierati contro il sistema stesso. Ancora oggi la tendenza della cultura occidentale è questa: schierarsi all’opposizione di sé stessa. E da questo punto di vista certi ragazzi, quelli che fanno più scena e vengono più inseguiti dai media e da certi partiti vogliosi di essere votati, rappresentano un’avanguardia. Non si tratta comunque di colpevolizzarli. Anzi è auspicabile, un vero atto di ribellione giovanile: contro i pensieri ricevuti e contro ogni conformismo.