Fonte:
Corriere della Sera
Autore:
Sergio Della Pergola
Non ci può essere indifferenza
Il 7 ottobre 2023, uno spartiacque
Caro direttore, il 7 ottobre 2023 segna uno spartiacque nella storia contemporanea. Dai tempi della Shoah non veniva commesso un tale massacro di ebrei. La strage, la sua portata, le sue modalità, non possono rapportarsi in alcun modo alle differenze d’opinione fra le due parti sulla geopolitica, i diritti legittimi, l’autodeterminazione dei popoli, i territori occupati e i confini. E un progetto genocida perpetrato in nome dell’Islam fanatico, sotto l’egida dell’Iran, echeggiando famigerati testi sacri. L’obiettivo dichiarato è distruggere non solo lo Stato di Israele, ma l’intero popolo ebraico. Il nuovo paradigma nella lettura degli eventi richiede dunque nuovi strumenti per la soluzione del conflitto. In questo caso: la distruzione degli aggressori, come avvenne nel ’45 con i nazisti tedeschi e gli imperialisti fanatici giapponesi, e la loro sostituzione con un regime diverso, che possa dare per la prima volta ai palestinesi il diritto a una loro sovranità politica, ma senza interferire con la sovranità e la pace di Israele. La prima e più ovvia osservazione riguarda il drammatico fallimento dell’intelligence israeliana nel prevedere e monitorare gli ultimi eventi. Esistevano e circolavano molte indicazioni chiare e inquietanti, che perb sono state ignorate. L’idea fondante di Netanyahu che Hamas non costituisse un pericolo per via del deterrente israeliano e dei benefici economici derivanti dalla non belligeranza, si è rivelata fallimentare. Era stato proprio il premier di oggi all’epoca all’opposizione ad attaccare l’allora capo del governo Ehud Olmert dopo la campagna del 2006 in Libano: «Il primo ministro è l’autorità suprema, superiore ai responsabili militari. Pertanto, il premier ha la responsabilità primaria. Chi ha sbagliato non pub anche essere colui che riparerà. Non potrà sfuggire a lungo al giudizio del popolo». Ebbene, nei suoi 14 anni di potere quasi ininterrotto, Netanyahu è stato colui che ha dettato la grande strategia militare e ha determinato il corso politico: soprattutto, dire sì a Hamas, no all’Autorità Palestinese. Per farlo si è circondato di una schiera di collaboratori mediocri, se non folli, estremisti tra gli estremisti, ideologicamente pericolosi e operativamente incompetenti. Ha coinvolto il Paese in una disastrosa controversia interna, portandolo sull’orlo della guerra civile. Ha alimentato l’odio e la disunione, per garantire il suo potere personale e il suo stile di vita edonistico. Oggi rifiuta di assumersi le responsabilità della maggiore catastrofe nei 75 anni della storia di Israele. Ma anche lui non potrà sfuggire a lungo al giudizio del popolo. Eppure quella che sembrava una società israeliana disastrosamente divisa e spaccata, travolta nella diatriba sulla rivoluzione costituzionale tentata da Netanyahu, nel momento del pericolo ha risposto con grande unità e volontarismo. Si è ricompattata all’istante e con entusiasmo misto al dolore si è ripresa nelle mani la responsabilità del proprio destino. Uno degli aspetti più inquietanti di questa vicenda sono le posizioni assunte da ampi settori dell’opinione pubblica mondiale e dai media. La maggior parte di questi cerca ancora di mantenere posizioni intermedie o neutrali. Si ricorre anche al pretesto che Hamas non rappresenti i palestinesi, anche se a Gaza alle ultime elezioni (del 2006) Hamas è stato votato da una massiccia maggioranza. Il vecchio paradigma della ragionevole preoccupazione «per la sofferenza di tutte le vite umane», della neutralità e dell’invito alle due parti a cessare il fuoco è morto il 7 ottobre. Oggi ognuno è invitato a prendere posizione per l’una o l’altra parte. Con coraggio. Non ci pub essere indifferenza verso atrocità come quelle rivelate dai laboratori di medicina forense come la decapitazione di neonati. Anche se esiste il rischio che il conflitto si estenda e si globalizzi, non è più concesso rimanere nel mezzo. Negli ultimi giorni sono riemerse con chiarezza le radici antisemite dell’opposizione a Israele, totalmente estranee a una lettura seria dei fatti, ma ancorate a vecchi preconcetti. Nelle piazze, ma anche in certe università, si urla «morte agli ebrei». Le fake news, come quelle sull’ospedale di Gaza «distrutto con 471 martiri (morti) e 314 feriti» (secondo Hamas) sotto le macerie, sono parte integrante di questa posizione negazionista. L’abisso morale in cui sono precipitate parti dell’opinione pubblica, della sua leadership politica, delle élite intellettuali, nonché dei mezzi di comunicazione di massa e dei loro proprietari, va denunciato senza attenuanti. Mentre siamo ancora in mezzo al guado dei combattimenti, è indispensabile pensare al giorno dopo. La distruzione di Gaza non significa la distruzione dei palestinesi. Ciò che è accaduto segna la stazione terminale del modello di uno Stato palestinese comprendente Gaza e la Cisgiordania. Le due aree sono incompatibilmente diverse dal punto di vista politico e antropologico e devono essere trattate separatamente. È urgente stabilire un mandato internazionale a Gaza per ripulire le rovine, far ripartire l’economia e installare un’autorità formata da gente del posto non compromessa con Hamas, sotto la tutela iniziale di Paesi sunniti moderati come gli Emirati, l’Egitto o persino l’Arabia Saudita. Una volta ricostruita, Gaza potrà avere accesso all’indipendenza a condizione di essere smilitarizzata. La Cisgiordania, a sua volta, merita l’indipendenza, attraverso smilitarizzazione e negoziati diretti con Israele. I giorni di Abu Mazen sono contati per cause naturali: vecchiaia e malattia. Dopo di lui, la battaglia dei luogotenenti causerà probabilmente un bagno di sangue fratricida. L’interesse urgente di Israele è quello di sviluppare un lucido e realista piano di emergenza per affrontare l’inevitabile giorno dopo.