Fonte:
Corriere della Sera
Autore:
Paolo Lepri
No al Giro in Israele? Boicottare lo sport uccide le speranze di pace
«Penso che il boicottaggio di Israele sia un male», ha detto in varie occasioni Amos Oz, il paladino instancabile della soluzione dei «due Stati», il pacifista che rappresenta l’anima inquieta — dialettica e dialogante — di quella democrazia, unica nel Medio Oriente, che i suoi genitori, immigrati dall’Europa orientale, hanno contribuito a fondare in quegli anni terribili dietro di noi. Siamo sicuri che se chiedessimo all’autore di Storia di amore e di tenebra un giudizio sull’appello per spostare da Israele le prime tappe del Giro d’Italia , «a causa delle violazioni dei diritti dei palestinesi», sentiremmo parole simili a quelle che pronunciò quando un gruppo di intellettuali britannici intervenne contro programmi culturali che coinvolgessero istituzioni con la stella di David. In realtà iniziative come quella sostenuta tra gli altri da Moni Ovadia, dal filosofo e linguista Noam Chomsky, dagli europarlamentari Eleonora Forenza e Sergio Cofferati (hanno aderito una quarantina di organizzazioni tra cui FiomCgil, Pax Christi, la Comunità cristiana di base di San Paolo) stabiliscono una «regola dell’isolamento» che viene applicata unicamente nei confronti di Israele, radicalizzando tra l’altro posizioni contrarie al riavvio del negoziato. In questo caso più che mai, inoltre, il boicottaggio è uno strumento sbagliato, di cui si percepisce il sapore velenoso. Solo la convivenza apre le menti, crea ponti la cui costruzione era inimmaginabile. Cosa c’è di più umano, infatti, di una grande competizione sportiva, che toccherà i luoghi delle tre grandi religioni, unendole simbolicamente, che porterà uno spirito di lealtà disarmata in una terra divisa, troppo a lungo abituata alla violenza? Gerusalemme, Haifa, Be’er Sheva, Eilat sono anche luoghi della grande bellezza del mondo. E le biciclette non hanno targa. Se l’avessero, vi sarebbe scritta la parola pace.