1 Novembre 2020

Banalizzazione del termine Shoah

Fonte:

Corriere della Sera La Lettura

Autore:

Danilo Taino

Evitiamo la parola negazionista se la Shoah non c’entra

A differenza del mufti che emette una fatwa, non c’è alcuna autorità legale dietro al lancio contundente della parola «negazionista». Ma, anche senza basi giuridiche o scientifiche, l’accusa sta avendo una diffusione massiccia e produce effetti deprimenti, soprattutto se applicata non solo a chi nega l’esistenza del Covid-19, ma anche a chi si limita a mettere in dubbio la sanità dei lockdown. E non è solo questione di virus. Negazionista, da tempo, è anche chi esprime dubbi sull’eccesso di catastrofismo nella denuncia dei cambiamenti climatici e dei loro effetti futuri. O sui modi per affrontarli. E possiamo essere certi che la vergogna cadrà implacabile sulla testa degli scettici e dei meno conformisti di fronte ad altre paure del mondo. Con l’effetto di una fatwa: alla condanna non si sfugge. Pare che il termine «negazionismo» sia stato coniato da Henry Rousso, uno storico franco-egiziano che nel 1987 scrisse un saggio, Le Syndrome de Vichy, nel quale distingueva tra il revisionismo storico, spesso discutibile ma legittimo, e la teoria secondo la quale la Shoah sia un’invenzione, teoria che egli definì appunto negazionismo. Qui nasce un primo problema. Nella storia non c’è nulla di paragonabile alla Shoah per tragicità e punto più basso toccato dall’umanità. Utilizzare per vicende ben diverse un concetto che definisce chi nega il genocidio nazista, mettere sullo stesso piano concettuale e linguistico chi parla d’altro è per estensione una svalutazione della Shoah, una sua banalizzazione: la trasforma in qualcosa di uguale a tante altre vicende, la fa diventare frequente e ripetibile, non più unica. Le parole contano: usare il termine negazionismo per chi parla di virus o di clima ridimensiona il «peccato» di chi nega l’Olocausto. Un secondo problema è che, proprio per le sue radici legate alla Shoah, il termine negazionismo ha l’effetto di chiudere ogni conversazione. Negazionista è qualcuno con il quale non c’è niente da discutere, un paria intellettuale o addirittura un intoccabile. L’ampio uso del vocabolo è un segno di tempi nei quali il confronto di idee diverse è spinto sempre più ai margini, spesso escluso. Succede con frequenza nelle università, soprattutto americane e britanniche ma non solo, dove ad accademici «controversi» viene impedito di parlare; succede in alcuni media anglosassoni dove giornalisti anticonformisti vengono allontanati; e succede nel dibattito pubblico, nel quale è sempre più facile trovare una «questione» che non ammette dubbi. Chi non è interno alla correttezza conformista va emarginato senza discussioni: se è una statua va abbattuta, se è un intellettuale non va ascoltato, se le sue posizioni sono controverse va zittito con l’accusa di negazionismo. E’ una tendenza montante che fa muovere qualche passo verso i regimi autoritari, i quali —guarda caso, motivandolo con la pandemia — stanno intensificando la censura su internet e i social network. E’ un’accusa d’infamia, di pronto uso, che non ha bisogno di argomenti, che alza un muro, che divide il mondo tra accettabili e «deplorabili». Può sembrare eccessivo cavillare su un termine entrato ormai nel linguaggio comune. Il guaio è che — parola per parola, concetto dopo concetto, di piccola censura in piccola censura — si disegna un ambiente via via più illiberale e diviso in tribù che si rifiutano di comunicare tra loro. E che prima o poi, probabilmente, si scontreranno.