Autore:
Guido Ambroso
Antisionismo, antisemitismo e persecuzioni dimenticate
Certo, due torti non fanno una ragione e non è questo il luogo per analizzare se Israele abbia o non abbia utilizzato la forza in maniera proporzionata per difendersi dalla brutale aggressione di Hamas e altri movimenti jihadisti contro vecchi, donne e bambini il 7 ottobre 2023, o se Hamas abbia o meno utilizzato i civili come scudi umani in “soft targets” come scuole e ospedali. E certamente le critiche, anche dure, a questa o quella politica del governo israeliano sono più che legittime e non espressione di antisemitismo, come dimostrano le centinaia di migliaia di manifestanti antigovernativi in Israele negli ultimi mesi. Ma una focalizzazione a volte ossessiva sui mali veri o presunti perpetrati da Israele, un utilizzo improprio del termine “sionismo” considerato come una ideologia malvagia che complotta prima per uccidere i palestinesi visti come “vittime sacrificali” e poi per dominare il mondo col potere finanziario, sono atteggiamenti che collimano con l’antisemitismo classico.
Come ha scritto Gadi Luzzatto Voghera, alcuni dei temi chiave della polemica antiebraica della fine del secolo XIX si possono trovare, debitamente trasformati e adattati, nel linguaggio antisionista, in particolare la teoria del “complotto sionista”.[1] Emblematica una vignetta apparsa in questi giorni su Facebook col titolo “I Padroni della Federal Reserve (USA)” che ritrae una lista di banche di affari con accanto la stella di Davide e la domanda beffarda, “rende l’idea?”, suggerendo che la crisi è stata causata dalla finanza internazionale in mano agli ebrei. Si noti che questa immagine che sembra venire da una manuale dell’antisemitismo della prima metà del ventesimo secolo, è stata inizialmente postata da un individuo con un chiaro profilo di cospirazionismo e sovranismo di estrema destra (“Italia Sovrana e Popolare”) con tutto l’armamentario di complottismo sul COVID e i vaccini, ma è stata ri-postata da persone che si professano “di sinistra”.
Un aspetto di questa “tunnel vision” è la scarsità di analisi e commenti, a parte pochi addetti ai lavori, e la quasi totale assenza di polemiche politiche o manifestazioni contro persecuzioni o massacri perpetrati da altri attori in altre parti del mondo. In una certa misura questo atteggiamento si sovrappone al “pacifismo a senso unico” antiamericano e, come dice lo psicanalista Ammaniti in un’intervista al Corriere dell’11 novembre 2023, nell’inconscio collettivo di molti giovani vi è una contrapposizione verso l’Occidente come simbolo di un oppressivo potere mondiale. Ma nel caso di Israele le critiche spesso fanno anche scattare le corde dell’antisemitismo classico con tutto il suo armamentario mitico di deicidio e sete di sangue. Come scrive la professoressa Santerini, Ordinaria di Pedagogia all’Università Cattolica di Milano, un punto incontrovertibile dell’antisemitismo contemporaneo è la sua capacità virale di riemergere in occasione di gravi crisi, come la pandemia e la guerra,[2] o perlomeno delle guerre o conflitti che hanno più risalto sui media.
C’è chi sostiene che Israele in quanto paese “occidentale” sia chiamato a rispettare degli standard più alti rispetto ad altri stati. Quest’atteggiamento è non solo ipocrita da parte di chi considera Israele (e gli ebrei) la fonte di ogni male, ma anche profondamente razzista verso popoli o etnie che non sono perseguitati da paesi occidentali e appaiono come i “figli di un dio minore” e non degni della stessa solidarietà riservata alle vittime o presunte tali dei cattivi americani o israeliani.
Per quanto riguarda i media, una giornalista ha recentemente spiegato che la minore attenzione data ad alcune situazioni di conflitti o persecuzioni piuttosto che altre è dovuta alla “legge di prossimità” ossia al fatto che l’attenzione mediatica a determinate vicende internazionali è correlata alla prossimità geografica con i paesi occidentali che generano l’audience per i media. E naturalmente poi c’è anche l’effetto saturazione dopo che una certa situazione viene sviscerata dai media per mesi. Ma per certi movimenti antagonisti o pseudo-pacifisti o ancor peggio, pseudo-accademici, la legge della prossimità non funziona perché non risulta che chi si indigna per i bombardamenti a Gaza e manifesta contro Israele abbia riservato simile animosità contro la Russia che dal febbraio 2022 ha invaso l’Ucraina e bombarda sistematicamente e indiscriminatamente obbiettivi chiaramente civili (mentre a Gaza pare assodata la presenza capillare di gruppi armati jihadisti in siti civili). Come scrive Paolo Mieli sul Corriere del 19 novembre 2023, impossibile non rilevare che la storia di oltre ventimila bambini ucraini deportati dai russi (e per la quale Putin è stato messo sotto accusa dalla Corte Penale Internazionale) non genera alcuna apprensione né emozione nel mondo pacifista. E non funziona neanche l’effetto saturazione, perché la condanna di Israele è sempre di attualità.
Faremo quindi una breve carrellata su alcune delle più eclatanti situazioni recenti, comparabili da un punto di vista umanitario con la tragedia di Gaza, non per assolvere a priori Israele da ogni crimine che ha, o potrebbe avere, commesso, ma per chiedere a chi sputa odio contro Israele (e spesso e volentieri anche contro gli ebrei) se ha intenzione di boicottare le istituzioni accademiche e organizzare manifestazioni anche contro altri stati o attori non-statuali che hanno commesso massacri, crimini contro l’umanità e altre atrocità.
Gli uiguri nella Repubblica Popolare Cinese. Gli uiguri sono una minoranza etnolinguistica turcofona mussulmana che vive principalmente nella regione dello Xinjang della Cina nordoccidentale che venne incorporata nella Repubblica Popolare maoista nel 1949. Oggigiorno la loro popolazione è stimata fra i 12 milioni (secondo le autorità cinesi) e i 20 milioni (secondo esponenti della comunità uigura). Qui non si tratta di un assalto brutale o del bombardamento sistematico di obbiettivi civili, ma del lento soffocamento degli uiguri in quanto gruppo, in quello che è stato definito un “genocidio culturale”[3] con la distruzione di migliaia di moschee e cimiteri e la proibizione di indossare l’abbigliamento tradizionale. Secondo l’ONG Human Rights Watch, a partire dal 2017 il governo cinese ha cominciato ad internare migliaia di uiguri in campi di detenzione per la loro “rieducazione politica” ossia un lavaggio del cervello per sostituire la loro cultura islamica e turcofona con l’ideologia del Partito Comunista Cinese e la lingua Han della maggioranza cinese.[4] Secondo il Journal of Genocide Research nel 2021 oltre un milione di uiguri e membri di altre etnie turcofone mussulmane sono stati forzati ad andare in campi di internamento o in prigioni di sicurezza. Si tratta della più grande incarcerazione di una minoranza etno-religiosa dopo la Seconda Guerra Mondiale che sfiora il genocidio vero e proprio, senza l’aggettivo “culturale”.[5] In questi campi si pratica la sterilizzazione forzata[6] e l’indottrinamento ideologico come parte di una strategia di dominazione etno-razziale. Gli stupri non si contano. Di fronte a questi scempi ci sono state delle condanne diplomatiche da parte di alcuni organi ONU ed alcuni stati occidentali ed un manipolo accademici ha preso a cuore la vicenda con ricerche e rapporti. Ma l’oppressione degli uiguri non ha acceso gli animi delle persone che manifestano contro Israele e non risulta che alcun accademico abbia chiesto di boicottare le università cinesi dove si presume che il pluralismo accademico sia minore che in quelle israeliane. Silenzio assordante anche da parte del mondo islamico su una situazione caratterizzata da un genocidio strisciante e da una flagrante soppressione della libertà religiosa (che invece è garantita in Israele). Forse per paura del gigante cinese (mentre il gigante americano può essere criticato senza paura di ritorsioni)? Ad ogni modo la richiesta di Pechino di prestare “urgente attenzione” alla situazione di Gaza e il summit indetto a questo scopo con i leaders dei principali paesi mussulmani a Pechino il 20 novembre 2023[7] pare un classico esempio del detto popolare “da quale pulpito vien la predica”.
I rohingya in Myanmar (e Bangladesh). I rohingya sono una minoranza etnolinguistica mussulmana che risiede (o meglio, risiedeva) nella fascia costiera nordoccidentale del Myanmar (una volta conosciuta come “Birmania”) con una consistenza numerica stimata intorno al milione e mezzo di individui in uno stato a forte maggioranza buddista, divisa in vari di gruppi etnici. Stato che, giova ricordarlo, è una dittatura militare comunista al potere prima fra il 1962 e il 2011, e poi, dopo un breve periodo di relativa libertà politica, dal 2021 a seguito di un colpo di stato. A partire dalla fine degli anni ’70 furono oggetto di persecuzione da parte degli apparati di sicurezza e dei nazionalisti buddisti. E fu proprio il nazionalismo di matrice buddista che spinse nel 1982 il governo dell’allora Birmania a privare i rohingya della cittadinanza birmana rendendoli apolidi nel loro paese, accusandoli di non essere veri birmani ma dei mussulmani del Bangladesh emigrati in Birmania “solo” nel diciannovesimo secolo. Secondo la ONG Human Rights Watch[8] e numerose altre fonti la giunta militare birmana ha commesso atrocità su larga scala contro i rohingya, incluso uccisioni, stupri e incendi che hanno raggiunto l’apice alla fine del 2017 forzando oltre 740.000 individui a fuggire verso il Bangladesh unendosi a decine di migliaia di rifugiati che già erano fuggiti in precedenza (il primo esodo dei rohingya fu registrato nel 1978). Nel 2020 sia la Corte Internazionale di Giustizia che una missione ONU hanno espresso la forte preoccupazione che i circa 600.000 rohingya restanti in Myanmar siano a “rischio di genocidio”. Da notare che le persecuzioni contro i rohingya culminarono proprio nel periodo in cui Aung San Suu Kyi, un altro Premio Nobel per la Pace, era alla guida di un governo teoricamente democratico, prima del ritorno dei militari al potere nel 2021. Secondo l’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, oltre un milione di rohingya sono fuggiti dal Myanmar a partire dagli anni ’90, e oggigiorno ci sono 960.000 rifugiati rohingya in Bangladesh.[9] Ma invece di favorire l’integrazione di questi rifugiati religiosamente e culturalmente affini alla maggioranza della sua popolazione mussulmana, il governo bengalese li tiene confinati in campi profughi in zone costiere a rischio di inondazione senza la possibilità di rendersi autosufficienti e quindi restano dipendenti dall’aiuto delle organizzazioni internazionali. Anche qui abbiamo notato per questa popolazione definita dall’ONU come “la minoranza più perseguitata al mondo” solo un interesse di nicchia da parte di organismi per i diritti umani, alcuni stati occidentali e qualche accademico, ma nessun incitamento al boicottaggio del Myanmar da parte di accademici occidentali, e il silenzio del mondo islamico di fronte alla persecuzione sistematica di una minoranza mussulmana da parte di un regime comunista-buddista. E anche in questo caso il mondo islamico tace.
I tigrini in Etiopia. In questo caso la religione c’entra poco o niente e, al contrario degli uiguri e i rohingya, marginalizzati nei loro paesi, i tigrini[10], il gruppo etnolinguistico principale della regione del Tigray nell’Etiopia settentrionale ai confini con l’Eritrea, furono il pilastro del potere governativo etiope in due fasi della storia moderna, senza contare l’impero di Axum nei primi secoli dell’era cristiana. I tigrini furono il gruppo egemone in Etiopia sia durante il regno dell’imperatore Yohannes (1871-89), che durante il periodo fra il 1991, quando terminò la brutale dittatura stalinista di Menghistu Hailemariam, e il 2018, quando Abiy Ahmed, esponente di etnie opposte ai tigrini, venne nominato primo ministro dell’Etiopia. Non è questa la sede per riassumere la complessa storia e composizione etnica dell’Etiopia, ma bisogna premettere che durante il loro periodo al potere come gruppo egemone in seno all’EPRDF, il partito dominante fra il 1991 e il 2018, i tigrini, pur assicurando un periodo di crescita economica e relativa stabilità dopo decenni di guerre civili e carestie, vennero accusati di varie violazioni dei diritti umani, ma nulla comparabile alla dimensione della persecuzione che li avrebbe colpiti a partire dal 2020. Nel novembre 2020, dopo la decisione del governo regionale del Tigray di tenere elezioni nel suo territorio in violazione della decisione governativa di posticipare le elezioni legislative a livello nazionale, iniziarono degli scontri fra le milizie tigrine da un lato, e l’esercito etiope e milizie etniche alleate dall’altro, che presto si trasformarono in una vera e propria guerra civile. Per fermare l’offensiva tigrina il presidente dell’Etiopia, Abiy Ahmed, sollecitò l’intervento dell’esercito eritreo, quindi di un paese straniero, il cui presidente, Isaias Afewerki aveva vinto il Premio Nobel per la Pace insieme proprio ad Abiy Ahmed per essersi messi d’accordo su una disputa di frontiera che aveva portato a un conflitto fra Etiopia ed Eritrea nel 1999 e aver riallacciato i rapporti diplomatici. Le forze tigrine vennero prese fra due fuochi e, anche se vi furono gravi violazioni dei diritti umani anche da parte dei tigrini, non c’è dubbio che la popolazione civile tigrina fu e rimane la principale vittima di una campagna di arresti, uccisioni e stupri di massa, saccheggi e blocco totale degli aiuti umanitari[11] perpetrata dalle forze regolari etiopi e le sue milizie alleate, e dall’esercito eritreo. Secondo un esperto della situazione, i morti civili in Tigray fra massacri e morte per fame sono stimabili fra i 162.000 e 378.000 senza contare centinaia di migliaia di vittime militari con un totale complessivo che inizia ad avvicinarsi alla spaventosa cifra di un milione di morti.[12] Ora vige una fragile tregua ma c’è il timore di una “somalizzazione” dell’Etiopia con la disgregazione del potere statuale e un nuovo assalto genocidario in Tigray da parte dell’Eritrea.[13] E la tradizionale “valvola di sfogo” dei conflitti in Etiopia, ossia la fuga in Sudan come profughi, è oggigiorno preclusa perché lo stesso Sudan è attualmente sconvolto da una terribile guerra civile.
Il Darfur in Sudan. A dire il vero la guerra in atto in Sudan è una guerra civile di dimensioni più ampie del Darfur (una regione del Sudan occidentale) che è già stato colpito da una lunga e sanguinosa guerra etno-territoriale (2003 – 2020), ma il Darfur e gran parte della sua popolazione restano gli elementi più vulnerabili di una nuova guerra civile che dal 2023 divampa in quasi tutto il paese, compresa la capitale, Khartum. Come nel caso dei tigrini in Etiopia, la religione c’entra poco con questo conflitto, perché le principali forze in campo sono tutte di estrazione mussulmana sunnita, ma ci sono importanti fattori etnici ed economici in gioco, ossia tribù arabe principalmente dedite alla pastorizia in conflitto con tribù africane dedite all’agricoltura come i Fur, i Masalit e gli Zagahwe, che erano discriminate da decenni. Nel 2005 una commissione d’inchiesta ONU concluse che anche se non si trattava (ancora) di genocidio l’esercito regolare sudanese e le sue milizie alleate, i famigerati Janjaweed (i cosiddetti “diavoli a cavallo”), avevano commesso crimini gravissimi come la distruzione e il saccheggio di villaggi, l’uccisione in massa di civili, torture e stupri,[14] ma successivamente la Corte Internazionale Penale Internazionale incriminò l’allora presidente del Sudan, Ahmad Al Bashir, e uno dei capi dei Janjaweed, Ahmed Harun, di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.[15] I morti furono centinaia di migliaia. Vi fu una breve speranza quando nel 2018 il presidente-dittatore Al Bashir venne deposto e iniziò una fase di transizione democratica con il coinvolgimento della società civile che però si concluse con un colpo di stato guidato dal capo di stato maggiore dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan e dal capo delle milizie chiamate Rapid Support Forces (RSF), discendenti diretti dei famigerati Janjaweed, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”, entambi in ottimi rapporti con la Russia. L’RSF faceva il lavoro sporco contro gli insorti del Darfur per le forze regolari sudanesi, ma nell’aprile 2023 i due leader entrarono in conflitto in teoria su questioni “tecniche” come il reclutamento di nuovi miliziani per l’RSF e la durata del periodo della sua integrazione nell’esercito sudanese, ma in realtà su chi dovesse avere il potere politico-militare. Da quel momento il Sudan è precipitato in una nuova spirale di conflitti e violenza che ha già causato oltre 9.000 morti e numerosi casi di violenza sessuale secondo il responsabile ONU per gli aiuti umanitari Martin Griffiths,[16] principalmente (ma non esclusivamente) commessi in Darfur. La CNN segnala una campagna di una vera e propria riduzione in schiavitù perpetrata dall’RSF di numerose donne (ma anche uomini) delle tribù africane del Darfur che vengono spedite nelle zone arabe nel nord del Sudan.[17] RSF che, è bene ricordarlo, ha ricevuto un importante sostegno militare e logistico dai miliziani della Wagner. Purtroppo oggi in Sudan il Darfur appare solo come il il “ventre molle” più colpito da una guerra che sta risparmiando solo pochi angoli di questo enorme paese. Guerra che sta diventando sempre di più di stampo somalo, ossia caratterizzata dal collasso dello stato che detiene monopolio legittimo della forza, dove hobbessianamente, homo homini lupus est.
Guido Ambroso, esperto di questioni internazionali, ha lavorato per 34 anni con l’UNHCR, l’agenzia ONU per i rifugiati, in varie capacità e sedi, compresi Uganda, Iran, Etiopia, Somalia, Ginevra, Tanzania ed Azerbaigian. Ha pubblicato vari articoli sul Corno d’Africa e sulla questione dei rifugiati.
Note
[1] Luzzatto Voghera, Gadi, Antisemitismo, Milano, Editrice Bibliografica, 2018.
[2] Santerini, Milena, “Antisemitismo latente ed esplicito in Italia, tra pregiudizi e revisione della storia”, in Santerini, M. (a cura di), “L’antisemitismo e le sue metamorfosi”, Firenze, Giuntina, 2023. Già ai tempi dell’esplosione della questione AIDS alla fine degli anni’80, vi furono chiari esempi di antisemitismo che tentavano di spiegare la diffusione dell’AIDS con una cospirazione ebraica.
[3] https://newlinesinstitute.org/rules-based-international-order/genocide/uyghur-heritage-and-the-charge-of-cultural-genocide-in-xinjiang/
[4] https://www.hrw.org/news/2017/09/10/china-free-xinjiang-political-education-detainees
[5] https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/14623528.2020.1848109?needAccess=true
[6] https://foreignpolicy.com/2020/07/01/china-documents-uighur-genocidal-sterilization-xinjiang/
[7] https://edition.cnn.com/2023/11/20/china/china-arab-countries-beijing-israel-hamas-conflict-intl-hnk/index.html
[8] https://www.hrw.org/news/2020/01/23/world-court-rules-against-myanmar-rohingya
[9] https://www.unrefugees.org/news/rohingya-refugee-crisis-explained/
[10] in maggioranza cristiani mentre l’Etiopia è circa al 50% cristiana e al 50% mussulmana.
[11] Report of the Ethiopian Human Rights Commission (EHRC)/Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (OHCHR) Joint Investigation into Alleged Violations of International Human Rights, Humanitarian and Refugee Law Committed by all Parties to the Conflict in the Tigray Region of the Federal Democratic Republic of Ethiopia
[12] https://www.dailymaverick.co.za/article/2023-02-22-ethiopias-tigray-war-and-the-big-lie-behind-the-century-defining-600000-civilian-deaths/
[13] Secondo l’esperto Alex De Waal, https://responsiblestatecraft.org/2022/10/14/tigray-faces-a-new-onslaught-by-eritrean-ethiopian-forces/
[14] “Report of the International Commission of Inquiry on Darfur to the United Nations Secretary-General Pursuant to Security Council Resolution 1564 of 18 September 2004 Geneva, 25 January 2005 » https://www.legal-tools.org/doc/1480de/pdf/
[15] https://www.icc-cpi.int/darfur
[16]https://apnews.com/article/sudan-war-military-rsf-conflict-khartoum-f12975eb72c830ed86ed6a7a49e9658d
[17] ‘They called me a slave’: Witness testimony exposes alleged RSF-led campaign to enslave men and women in Sudan | CNN
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