8 Agosto 2024

Antisemitismo “politicamente corretto”

Fonte:

La Stampa

Autore:

Assia Neumann Dayan

Ma “dal fiume al mare” è uno slogan di odio

Non si può più dire niente» viene usato spesso come didascalia a varie fatti dichiarazioni  o fatti irriferibili, con il sarcasmo di chi dice: vedete che si può dire e fare tutto? Vedete che non è vero che c’è la dittatura del politicamente corretto? A volte ciò che separa l’uomo dal «pappappero» è solo la prontezza di riflessi. Ciò che è stato completamente estromesso dal discorso, in modo da facilitarne la polarizzazione, è l’assunzione di responsabilità. L’altro giorno Patrick Zaki, che nella biografia di X scrive di se stesso «Human rights Defender» (difensore dei diritti umani), ha pubblicato un tweet in cui chiamava gli israeliani (o gli ebrei? Chissà) «specie demoniaca». Successivamente si è scusato in mille righe dicendo che i tweet sono rivisti dai suoi «collaboratori» perché lui non conosce bene l’italiano e che «il significato voluto si perde nella traduzione». Immagino che Zaki abbia licenziato il responsabile, più per incapacità che per antisemitismo, antisemitismo che oramai è stato declassato a «libertà di parola» o «antisionismo». Non si può più dire niente? Si può, eccome se si può. Ieri su questo giornale Flavia Perina parlava della sentenza che ha visto una cittadina tedesca condannata a una multa per aver cantato lo slogan «dal fiume al mare» nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre. «Palestina libera dal fiume al mare» è una chiamata alla cancellazione di Israele, quindi sì, è un crimine e no, non è una posizione lecita. Succede di avere posizioni non lecite, basta assumersene la responsabilità. A dicembre dello scorso anno il Wall Street Journal commissionò un sondaggio tra 250 studenti per capire quanti sapessero di quale fiume e quale mare si stesse parlando: la quasi totalità degli studenti appoggiava l’idea «dal fiume al mare», ma solo il 47%, sapeva quale fiume e quale mare. Però suona così bene, come fai a non cantarlo, anche se pensi che il fiume sia l’Eufrate e il mare il Mar Morto, che non è nemmeno un mare. Meno di un quarto di loro sapeva chi fosse Arafat, più del 10% pensava che fosse un primo ministro israeliano. Sono convinta che lo slogan si sia diffuso perché è come un jingle pubblicitario: fa rima, è facile, occupa poco spazio in un carosello di Instagram. Ci fanno le magliette, le tazze, gli adesivi: è questo il capitalismo intersezionale. Il contagio sociale si verifica con qualunque cosa, non vedo perché la situazione qui sia diversa. La ragazza condannata in Germania ha vent’anni, e come tutti i ventenni parlerà di geopolitica, di antisionismo, di massimi sistemi, ma avere vent’anni non esclude l’assunzione di responsabilità. Il fatto che «dal fiume al mare» non sia un pensiero reale, ma un mezzo per essere accettati dal gruppo dominante, lo rende solo più grave e più scadente. Sono anni che non si fa altro che parlare di microaggressioni, di inclusione, di diritti, ma pare che auspicare la cancellazione di un popolo e di uno stato vada bene, pare che avere un doppio standard vada bene, pare che vada tutto bene nel mondo di quelli che stanno dalla parte giusta della storia. Il mondo che è stato costruito ha cancellato l’antisemitismo: gli ebrei sono bianchi occidentali e anche gli arabi sono semiti; quindi, va da sé che se cancelli l’oggetto del reato cancelli anche il reato. Rimane l’antisionismo, che vuol dire solo avere così poco carattere da non dire quello che si pensa. Se Israele fosse stato governato da qualcuno diverso da Netanyahu le cose sarebbero andate diversamente? Io non credo e non ci ho mai creduto nemmeno per un attimo. Le manifestazioni, le occupazioni, le tazze brandizzate dal fiume al mare sono iniziate l’8 ottobre. Il mondo universitario, i collettivi, i gruppi intersezionali, la sinistra occidentale non avrebbero mai reagito in maniera diversa, e questo perché non «dipende dal contesto»: è proprio vero che si può dire tutto.